Remi, galere, banditi, e selve d'Aveto

Collana di storia locale nuova serie n° 1

di Sandro Sbarbaro

Spesso lo stereotipo domina le nostre menti, così è difficile immaginarsi un contadino o un montanaro che faccia il marinaio o che si dedichi ad un'arte che abbia a che fare col mare.
Mare e monti, sono due elementi che a noi appaiono distanti.
In realtà il rapporto fra il contado, o la gente dei monti, e il mare è stato più ampio di quel che s'immagina.
Occorre rammentare che per un valligiano spostarsi verso il mare, in particolare dirigersi a Chiavari, non era un'impresa surreale.
Cito qui l'aneddoto che era raccontato in quel di Sbarbari, parrocchia di Priosa d'Aveto: "Un contadino ritenuto in gamba doveva recarsi a Lavagna a comprare i cavoli e nello stesso giorno trapiantarli nel suo orto in Val d'Aveto".
Stesso discorso valeva nello spostarsi verso Genova, seguendo pressappoco lo spartiacque, ossia il percorso Barbagelata, Lavagnola, Rossi, Scoffera, Davagna, Struppa, dalla Val d'Aveto si giungeva in città in circa sei-sette ore.
Noto è il fenomeno dei contadini fattisi marinai, per denaro, in sostituzione, in genere, di una persona abbiente che preferiva evitare il servizio sul naviglio della Repubblica Genovese. (1)
Altri casi di persone provenienti dal contado, che hanno lavorato per secoli al servizio, direttamente o indirettamente, della flotta della Repubblica, furono i boscaioli, che hanno tagliato e sgrossato, e i remolari che hanno forgiato i remi delle trireme e delle galere della Serenissima Repubblica Genovese.

La Valle dell'Aveto, è stata per secoli bacino privilegiato, fonte inesauribile per l'industria dei remi, grazie ai suoi maestosi faggi dai quali si ricavava un superbo prodotto finito, e alla perizia dei remolari del Molo a Genova, o di quelli di Vico dei Remolari a Chiavari.
Grazie ad un regesto del FERRETTO (2), sappiamo che il 22 Giugno 1267 Bernardo di Gualdo di Barbagelata, promette di consegnare al maestro d'ascia Pietro d'Uscio ventidue vogas pro galeis lunghe 14 cubiti. (3)
Detto maestro d'ascia d'Uscio si rifornisce della materia prima per sbozzare i remi da un boscaiolo di Barbagelata.
Barbagelata è posta sul crinale fra Aveto e Trebbia.
Nodo viario di notevole importanza nel passato per le molte strade che vi confluivano venienti da Genova verso Piacenza, o dalla Riviera di Levante verso il Pavese o il Tortonese.
Il suo poggio fu per un breve tempo incastellato si cita un Gaialdo de Meleda o Mileto a presidio, sino al 1184, del "Castello" di Barbagelata, fatto abbattere dalla Repubblica di Genova. (4)
Bernardo di Barbagelata, probabilmente, si procurava i faggi atti alla bisogna, nella zona d'Acquapendente, in altre parole presso le fonti dell'Aveto, ove ancor oggi nel comprensorio fra il Passo della Volta e Prato Lungo, in una valletta al riparo dai venti di tramontana e da quelli marini, si sviluppano faggi d'altezza considerevole, alti circa 10-15 m., e soprattutto diritti, che sono le caratteristiche richieste nell'industria dei remi.
Il 5 novembre 1311, troviamo il remolaro Guglielmo de Valdavanto devoto di San Bartolomeo, che istituisce una cappellania, per gli offici all'altare del Santo, in San Marco al Molo in Genova. (5)
Occorre ricordare che nel 1352 compare Federico Devoto fu Conforto ministro dell'ospedale di San Bartolomeo delle Lame in Val d'Aveto.
L'ospedale dipendeva dal monastero di San Pietro in Ciel d'Oro di Pavia, con lui abitava il converso Pietro Devoto, suo fratello. (6)
L'esistenza di detto ospedale è attestata almeno sino al 1564 con rettore prete Pellegrino da Rezzoaglio.
Ancora nel 1622 si cita "una chiesa rovinata sonto le Lame". (7)
Detta chiesa di San Bartolomeo alle Lame, per tradizione orale, era ritenuta concordemente dai vecchi di Magnasco la chiesa dei "camalli" addetti al trasporto dei tronchi di faggio verso la Val di Sturla, e quindi Chiavari per essere utilizzati nella fabbricazione dei remi.
Sembra evidente il rapporto del Santo Bartolomeo con gli addetti alla lavorazione nell'industria dei remi.
Di detto ospedale non rimangono, attualmente, che miseri resti.
Le foreste delle Lame e del Penna furono con l'avvento di Gio Andrea Doria ritenute patrimonio da tutelare dal taglio indiscriminato.
Si suppone anche per consentire alle piante di raggiungere un'altezza opportuna che permettesse in seguito il loro impiego nell'industria navale, in specie nel settore dei remi.
Quindi furono emesse opportune gride fra le quali quella che è ritenuta la prima, rintracciata dall'illustre GIUSEPPE MICHELI all'Archivio Doria-Pamphili di Roma e riportata in seguito da Massimo Brizzolara (8) , che recita:

" Per parte del Magnifico Commissario di San Stefano, et d'ordine di S. E. si comanda che nessuna persona forastiera abbia ardire d'andar a tagliare qualsivoglia sorta di legnami nelli Boschi della giurisdizione di San Stefano tanto de qua da Ramezza [Gramizza] come di là, ne meno li legnami tagliati levare dalli Boschi sudetti sotto pena della galera ad arbitrio di S. E. et della perdita dei legnami et de bestie che le portassero o tirassero.
Dichiarando che alli vassalli et sudditi sia lecito per loro uso proprio tagliare legnami et servirse de i Boschi, et se alcuno vassallo darà aiuto e favore a forastieri in qualsivoglia modo per cavar legnami fuori della giurisdizione incascheranno nella medesima pena.
Et ognor si guardi de non contravenire.
Dato in San Stefano al banco della Sorte il dì 9 agosto 1593.
Sottoscrit. Mutio Comm. "

A questa ne seguirono naturalmente altre, quella del 1601 del commissario Gio Batta Guano, quella del 1638 del commissario Giobatta Ferraria, ecc., stralci delle quali sono pubblicati dal Brizzolara.
Interessante l'estratto della grida pubblicata sotto la reggenza di Polissena Landi, a favore del nipote Gian Andrea III Doria, sempre in Brizzolara.
Vi si nota, oltre alla concessione ad impresari del parziale sfruttamento dei Boschi Camerali, il divieto imposto sui legnami da serra e remi da galera. (9)
Ci sembra utile rimarcare che sino a quella data, 1672, i remi da galera avevano ancora un certo mercato, e le foreste del Penna e delle Lame, poste fra Aveto, Taro e Sturla, avevano il compito di rifornirlo.
Il declino dei remi, infatti, avverrà solo nel secolo successivo.
Nella Relazione del 29 ottobre 1765 inviata al principe Andrea IV Doria, da Pellegro Cella, si parla di sfruttamento della selva della Penna e delle Lame per farne carbone.
La gente delle valli montane ha altresì contribuito in vario modo alla formazione degli equipaggi della Repubblica Genovese o di quelli che appartenevano agli "assientisti", al servizio dell'imperatore Carlo V, ne citeremo alcuni.
Secondo VILMA BORGHESI i rematori detti "sequelle" (10) facenti parte degli equipaggi del principe Gio Andrea Doria fu Giannettino, "erede" d'Andrea Doria, (11) provenivano dagli ex feudi appartenuti ai conti Fieschi.
Detti feudi furono ceduti a vario titolo, dal Fisco Imperiale di Carlo V, in parte alla Repubblica di Genova e in parte a persone fedeli al sovrano: Andrea Doria in primis, Antonio Doria fu G. B. e altri. (12)
V'è, dunque, una remota possibilità che alcuni nostri valligiani fossero imbarcati sulle galere di Gio Andrea Doria, erede designato d'Andrea Doria.
Rammentiamo, però, che il districto di Santo Stefano (d'Aveto), appartenuto ai conti Fieschi dal 1495 al 1547, (13) fu acquistato da Gio Andrea Doria solo nel 1592.
Egli lo aveva acquisito dal marchese Gio Batta Doria fu Antonio, fu G. B., ultimo feudatario, del marchesato di Santo Stefano d'Aveto, di quel ramo.
Gio Andrea Doria fu Giannettino, benché a quel tempo di salute malferma, sarà ancora al comando della flotta del re sino al 1601, anno in cui verranno da Filippo III accettate le sue dimissioni. (14)
Ricordiamo, per inciso, che il padre di Gio Batta, Antonio Doria fu G. B. fu Melchione, potente "asientista", ossia appaltatore di galere che su compenso schierava, in quel frangente, al servizio dell'Imperatore Carlo V, nel 1559 era proprietario di sei galere, quindi, non è improbabile che qualche valligiano già navigasse sotto le insegne del nuovo signore di Santo Stefano d'Aveto (15) .
I valligiani concorsero alla formazione degli equipaggi delle galere, anche in altro modo.
É noto che il marchesato di Santo Stefano d'Aveto e i territori circostanti, furono a lungo interessati dal fenomeno del banditismo, che imperversò dalla seconda metà del '500 sino al '600. I feudatari dell'epoca, non disdegnavano di allocare sui propri territori banditi d'ogni risma, per poterli utilizzare come mercenari in caso di scaramucce con altri feudatari, come birri, o "scorte".
I banditi inoltre alimentando il fiorente mercato della roba rubata, zone di ricetto Cabanne in Val d'Aveto, Cerignale in Val Trebbia, e Verzi in Val Fontanabuona, (16) davano modo ad un'economia asfittica di risollevarsi un poco, facendo affluire in loco capitali freschi.
Già i Fieschi, quando furono feudatari del "districto" di Santo Stefano d'Aveto, non si peritavano di accogliere sul loro territorio fior di banditi, un nome per tutti: Vincenzo Zenoglio, detto il Crovo, da Borgonuovo di Val di Sturla, la cui vicenda conclusasi con l'orribile fine in quel di Rezzoaglio, nell'agosto del 1543, è ormai leggenda (17) .
Gio Batta Doria fu Antonio, marchese di Santo Stefano d'Aveto, praticò e fu in combutta, come il suo vicino Claudio Landi in Val di Taro, con parecchi banditi della Repubblica Genovese, e non solo, basti affermare che un suo Commissario era tal Pietro, detto Perrino, Honeto di Val di Sturla bandito della Repubblica.
Sul suo territorio, anche grazie alle continue faide fra i della Cella di Cabanne con parentele affiliate e i Bacigalupo di Carasco coi loro accoliti, si riversava sempre un maggior numero di banditi.
Altra faida che alimentava le schiere dei banditi era quella fra i Marrè e gli Oneto di Borzonasca, in Val di Sturla.
Altra ancora quella fra i Biggio e i Ferretti in Val di Trebbia e zone limitrofe. In Val Fontanabuona erano note le faide fra i Rovegno e i Garbarino e tra i Foppiano e i Leverone (18) .
Inoltre in Val d'Aveto transitava, sempre più, un crescente numero di banditi di Fontanabuona: i Leverone, i Solari, i Consigliero, i de Martini, ecc., sia per azioni di ruberia ai passi, sia per sfuggire alla giustizia.
Spesso detti banditi erano in combutta con i Cella, o della Cella, dell'alta Val d'Aveto, senza il cui placet era sconsigliato agire entro i confini del marchesato di Santo Stefano d'Aveto.
La Repubblica di Genova, per combattere il fenomeno del banditismo, si affidò a dei Commissari, di stanza nel Vicariato- Capitaneato, di Chiavari, supportati nella caccia ai banditi da squadre di soldati corsi, organizzate in compagnie al comando di un Capitano.
Pietro Maria de Ferrari, uno dei Commissari più "illuminati", nell'estate del 1578, s'installa nel cuore della Val Fontanabuona, in Pianezza, per operare più proficuamente, salvo poi tornare a Chiavari all'inizio dell'inverno, nel 1584 è, secondo O. RAGGIO, "commissario generale per tutto il Dominio" (19) .
Altro Commissario che operò in quegli anni fu Gio Batta Di Negro.
Le pene inflitte ai banditi, variavano secondo la gravità del delitto commesso, nei casi più gravi era prevista la pena di morte per decapitazione, nei meno gravi l'invio alle galere della Repubblica di Genova quale rematore forzato, o l'essere banditi dal territorio della Repubblica di Genova per qualche anno, o in perpetuo, compreso, a volte, il sequestro dei beni.
Alcuni dei nostri valligiani furono condannati a detta pena, ma non sempre il castigo era scontato spesso il bandito restava uccel di bosco, a volte ricorrendo alla protezione di G. B. D'Oria, altre volte commetteva un delitto sì grave che la pena si trasformava in quella di morte (20) .
I discendenti di Gio Andrea Doria, continueranno in seguito a navigare, anche se l'epoca d'oro della famiglia si esaurisce in pratica con l'avo citato, e i loro interessi riguarderanno in futuro la gestione del patrimonio acquisito, tramite matrimoni con casate importanti (21) .

Note:

(1)
« 1266, 26 MAGGIO - Simone di Tasso, drappiere, dichiara che Andriolo di Simone Zaparo, di Tassorello, d'ordine suo, diede a Pavesino di Castello L. 7, per andare in cambio di suo padre, come vogatore, sulle galee, armate contro Venezia, e delle quali è ammiraglio Lanfranco Borbonico de Turca.
In Genova, presso la stazione dei Fornari.
Not. Vivaldo de Sarzano IV, 149 »
(A. FERRETTO, Il Distretto di Chiavari Preromano, Romano e Medioevale - parte I.a, Chiavari, 1928. p.403).

(2)
« 1267, 22 GIUGNO - Bernardo di Gualdo, di Barbagelata, promette consegnare a Pietro da Uscio, maestro d'ascia, prope aquam de Baxa versus Auguxium ventidue vogas pro galeis lunghe cubiti 14.
In Genova, c. s. [presso la stazione dei Pediculi.]
Not. c. s. [Giberto de Nervio III, ], 311 »
(A. FERRETTO, Il Distretto di Chiavari..., cit., p.403).

(3)
Il cubito è una misura di lunghezza, corrisponde a circa 44 cm. Quindi la misura richiesta era di circa 6,16 metri.
Occorre tener presente che la misura del faggio da tagliare deve essere almeno il doppio, in modo che si possa ricavare dal tronco un remo dalle dimensioni appropriate.
É curioso notare che pressappoco questa misura 6,16 metri era quella della trave, di circa m 7, dal volgo chiamata Cantê (parola che in genovese ha altresì il significato di Cantiere, ossia luogo ove si approntano navi), che costituisce il pilastro dell'ossatura del tetto delle case dei contadini della Val d'Aveto, e non solo, cambia solo il tipo d'albero impiegato per realizzarlo, che in genere è il castagno.

(4)
Cfr. F. BENENTE, Incastellamento e poteri locali in Liguria Il Genovesato e l'area del Tigullio, in Incastellamento, popolamento e Signoria rurale tra Piemonte meridionale e Liguria-Fonti scritte e fonti archeologiche, ASTI, p.72.

(5)
« I nobili esempi fecero scuola ed un umile figlio del popolo, Guglielmo della Valle d'Aveto, fabbricatore di remi al Molo,divoto di San Bartolomeo pensò di adornare di fiori olezzanti e di nuovi ceri l'altare, che al Santo era sacro nella parrocchia del Molo.
Il 5 novembre del 1311 venne a patti col rettore Giovanni da Carignano.
L'artigiano... volle che l'altare di San Bartolomeo al Molo fosse ufficiato da apposito cappellano, e gli assegnava il reddito di lire 24, proveniente da una sua casa che sorgeva nella contrada di Palazzolo, ora [di] Nostra Signora delle Grazie.
Prete Giovanni, che il contratto chiama de Calignano, in qualità di rettore, si obbligava di assegnare in una delle case contigue alla sua chiesa, una camera, una cucina cum fogarili et lavello al novello cappellano, promettendo di invitarlo a pranzo col serviente nella vigilia di Natale e nei giorni seguenti; inoltre avrebbe assegnato al fondatore munifico un sepolcro fra le due porte della chiesa, ed uno spazio in essa, per porvi le panche, nelle quali sedessero i patroni della cappellania.
Come clausola veniva apposto che, se il rettore di San Marco non accettava i patti, tutta questa carità fiorita sarebbe andata a benefizio della chiesa di San Cosimo.
Il rettore prometteva di invitare a pranzo ed alla cena il cappellano per il giorno di Natale e per i due giorni seguenti, insieme al servo, per le feste della Circoncisione, Epifania, Domenica delle Palme, Sabato Santo, Pasqua, San Marco, Ascensione, Pentecoste, San Bartolomeo, Ognissanti, Commemorazione dei Defunti e nel giorno di San Nicolò, e pranzo soltanto, senza cena, l'indomani di Pasqua, coll'oblazione di alcuni denari nelle feste della Madonna.
Il patrono sarebbe stato sepolto presso l'altare di San Bartolomeo. Il granello di senape portò i suoi frutti ubertosi; la gente accorreva all'altare di San Bartolomeo, nella chiesa del Molo, tanto è vero che ancora il 28 gennaio 1352, di ordine di Bertrando, arcivescovo di Genova, si rendeva edotto il clero diocesano di indurre il popolo a dare le somme raccolte per l'ospedale di San Bartolomeo, di Benevento, e si accennava nel decreto ai voti che faceva il popolo genovese per detto Santo.
[...] Una lapide commemorativa dell'istituzione, consunta ma tutt'ora esistente, è riferita da. F. LEVRERI, Libro maestro de' stabili, legati e cappellanie della chiesa di San Marco, manoscritto datato 1° giugno 1787 e conservato presso l'Archivio della Parrocchia di San Marco al Molo, pp. 29 - 30:

"Ad honorem Dei et Sancti Bartolomei Guglielmus de Valdavanto, remolari, pro remedio anime sue et parentum suorum ordinavit capellanum perpetuum qui debeat omni die missam unam in presenti altari et facere divina officia in hac ecclesia, nisi fuerit iusta detentus, cui assignavit pro sua sustentatione libras XXIV ianuorum omni anno in pensione que pervenit de domo quam possidet in contrata Parasoli, cui coherent in parte occidentali domus Bertolini Bottarii, in aliis tribus partibus via communis ut plenius patet in conventione pacta inter ipsam et presbiterum Iohannem de Carignano rectorem huius ecclesie scripta manu Francisci de Loco notarii et confirmata per Capitulum Ecclesie Ianuensis 1311".

Lo stesso manoscritto ricorda la "Cappellania di Santa Maria e di San Bartolomeo" alla c.132 s. e prete Giovanni Mauro di Carignano alle pp. 16, 25 »

(D. CALCAGNO, Il Patriarca di Antiochia Opizzo Fieschi, Diplomatico di spicco per la Santa Sede fra Polonia, Oriente Latino ed Italia del XIII secolo, in I Fieschi tra Papato ed Impero, Atti del Convegno [Lavagna, 18 dicembre 1994], a cura di D. CALCAGNO, prefazione di G. AIRALDI, Lavagna1997, pp. 243-244).

(6)
Cfr. M. TOSI, Litterae Philippi abbatis Frederico Devoto pro ospitale S. Bartolomei in Lamis Vallis Avanti, Pavia, [1352], in "Orandum laborandum legendum" nel segno di Colombano: da S. Pietro in Ciel d'Oro alla pieve di Alpepiana, Archivum Bobiense - Rivista degli Archivi Storici Bobiensi, Bobbio, N. XVI - XVII, 1994/95, pp.269 -270.

(7)
« Esponesi alla Signoria illustrissima[il vescovo P. Aresio di Tortona] et reverendissima qualmente si ritrova una chiesa rovinata sonto le Lame, altre volte se gli diceva messa, poi hora per essere rovinata non se gli dice per avergli messo animali, così siamo pronti per farla rinovare nella villa di Magnasco hogi diocesi di sua Signoria illustrissima; questi supplicanti come quelli che pagano in biada per ciascaduno anno 2. o otto libre in circa alla detta chiesa, intitolata a San Bartolomeo, così sperano d'ottenere a sua Signoria illustrissima questi supplicanti » (M.TOSI, "Orandum laborandum legendum" nel segno di Colombano..., cit, p.98).

(8)
Cfr. Massimo Brizzolara, La Val d'Aveto. Frammenti di storia dal Medioevo al XVIII secolo, "I Quaderni di Ivo", II (1998) Rapallo, n. 3, pag. 138

(9)
« Emblematica al riguardo la grida del 1672 emanata dal "dottore in ambe le leggi" Pietro Cristiani, nella quale scopriamo il nome di uno dei primi locatari della selva del Penna. Infatti, dopo la consueta elencazione di veti e penali, il commissario scrive:

"... Nel presente ordine non resta compreso Simone Pomero quondam Benedetto novo affittatore del bosco della Penna al quale è stata data facoltà di lavorare in detto bosco solamente con dieciotto uomini di lavoro sia tagliatori o boscatori e dodici altri per portare fuori il lavoro. Sono esclusi legnami da serra e remi da galera e questi non esclus debbono essere marcati prima di portarli di marca S. di fuoco".

[...]Particolarmente odiosa dovette rivelarsi l'istituzione dei cosiddetti "biglietti di lavoro". Sui quali ci relaziona compiutamente uno stralcio tratto da una "Descrizione del marchesato di Santo Stefano" (archivio D.P., scaffale 77, busta 53, int.1) dove si afferma:

"Il bosco delle Lame o Penna... si è solito affittare a persone di Chiavari per tempo certo, con patto che non possino farvi remi da galera, né legname da serra; li operai sono restretti a numero di deciotto o venti et a medesimi o sia conduttore si consegnano altre tanti biglietti marcati quale li distribuisse a detti di lui operai, acciò andando a travagliare nella selva mostrandolo, non siano molestati dalli guardiani di detto bosco che trovandovi persone a travagliare o con ferri da taglio senza detti biglietti li fanno prigioni e vi sono pene contro trasgressori anco di galera" » (Massimo Brizzolara, La Val d'Aveto. Frammenti di storia dal Medioevo al XVIII secolo, cit, pag. 139).

(10)
« Le galere, imbarcazioni militari lunghe e sottili, con una portata non superiore ai 3.000 cantari (circa 150 tonn.) portavano a bordo 250-350 uomini.
Il numero più consistente era quello dei rematori (150-170 nel 1552), divisi in quattro categorie, schiavi e forzati (incatenati al remo), buonavoglia (liberi retribuiti), e, dopo il 1547, anche dai rematori detti "sequelle", uomini liberi provenienti dai feudi prima appartenuti ai Conti Fieschi, che le comunità erano tenute a fornire al feudatario.
[...] Per quel che riguarda il solo numero dei rematori va ricordato che aumentò considerevolmente a bordo delle galere mediterranee dopo l'introduzione, a partire dagli anni Quaranta del Cinquecento, del nuovo sistema di remeggio a un solo remo per banco e più rematori (almeno quattro) allo stesso remo. La galera capitana della flotta di Gio Andrea nel 1573 portava a bordo 390 persone: 20 ufficiali, 22 gentiluomini "gente di casa", 44 marinai, 16 "compagni", 8 "prueri", 280 rematori, che formavano una ciurma mista, composta da forzati, schiavi, buonavoglia e "sequelle".
[...] Il numero e la disponibilità dei rematori buonavoglia era strettamente legato invece ad annate di carestie e a tempi difficili. Un passo di una lettera scritta da Giovanni Andrea a don Giovanni d'Austria nel novembre 1572 individuava bene questo stretto rapporto tra stagioni, territorio, povertà e galere, sottolineando drammaticamente la misera condizione dei rematori:
" Vostra Altezza deve sapere che, siccome nel territorio di Genova non si raccoglie grano e ben poco di ciò che oltre al grano è necessario all'alimentazione degli uomini, c'è di conseguenza molta miseria, non solo sui monti, ma anche nella stessa città. Tanto che i poveri stentano a vivere, specialmente in inverno, quando alla mancanza di pane si aggiunge la necessità di vestirsi e manca loro la possibilità di lavorare".
Sarà facile - concludeva la lettera - "riunire a Genova, per la prossima primavera, rematori volontari per la ciurma di dieci galere" » (V. BORGHESI, Due Principi e Loano: Giovanni Andrea Doria e Zenobia del Carretto, in Giovanni Andrea Doria e Loano la chiesa di Sant'Agostino, Loano 1999, p.16-18).

(11)
« Il 25 novembre [1560] muore il principe Andrea: Gio Andrea eredita il marchesato di Tursi, il protonotariato del Regno di Napoli, le galere, e il palazzo di Fassolo; a Pagano spettano i feudi appenninici e la Contea di Loano » (Vita del Principe Giovanni Andrea Doria scritta da lui medesimo incompleta, a cura di VILMA BORGHESI, Genova 1997, p. XLVI).
« [1570] Il fratello Pagano gli fa dono della sua intera eredità (feudi appenninici e contea di Loano » (Ibidem p. XLIX).

(12)
I feudi dei Fieschi, dopo la Congiura del 1547, furono spartiti. Alla Repubblica di Genova toccò Montoggio, Varese, Roccatagliata e Neirone. Ad Antonio Doria, grazie anche all'intercessione d'Andrea Doria, Santo Stefano d'Aveto.
Ad Andrea Doria, l'Imperatore, donò Torriglia, Carrega, Garbagna, Grondona, Loano ecc. Al duca di Parma e Piacenza, Pier Luigi Farnese, Borgo Val di Taro e Calestano feudi di sua giurisdizione. Pontremoli trattenuto dall'Imperatore Carlo V fu aggregato allo stato di Milano.
Cfr. M. G. CANALE in Storia della Repubblica di Genova. Dall'anno 1528 al 1550, ossia Le Congiure di Gian Luigi Fiesco e Giulio Cibo colla luce dei nuovi documenti. Narrate ed illustrate per il Commendatore Avvocato Michel- Giuseppe Canale Civico Bibliotecario, Genova 1874, pp. 273-274.

(13)
« La richiesta di un exemplum del suddetto atto del 1251, fatta da Sebastiano della Cella, è da attribuire a data assai vicina al 21 agosto 1495, quando, con rogito del notaio Lorenzo Gentile di Tortona, il marchese Francesco Malaspina di Mulazzo, figlio del fu Guisello, addiviene alla vendita del "Castrum Sancti Stefani Vallis Avanti" a favore di Gian Luigi Fieschi detto il grande, conte di Lavagna e di San Valentino, grande protagonista della storia genovese in questo scorcio di secolo: tale vendita, effettuata in esecuzione ed a conferma di capitoli concordati cinque giorni prima nel borgo di Santo Stefano, comprende infatti, oltre allo stesso borgo di Santo Stefano, tutte le pertinenze costituite da ville, luoghi, terre, possessioni allodiali, molini e pedaggi, per il prezzo di 5687 ducati d'oro, soldi 14 e denari 3.
Nell'atto suddetto viene esplicitamente dichiarato che nei redditi del castello rientrano i settantacinque fiorini che gli uomini del luogo pagano annualmente per il salario del podestà " et solverunt annis superioribus ut haberent potestatem meliorem et honorabilem".
A fronte del prezzo come sopra convenuto, Gian Luigi Fieschi, immesso nel possesso dei beni compravenduti, versa 2.500 ducati, impegnandosi a pagare il rimanente entro tre anni in due rate (la prima entro dieci mesi e la seconda entro i successivi diciotto mesi) mentre il marchese Francesco Malaspina promette di fornire entro un mese i privilegi imperiali, gli strumenti feudali ed i documenti relativi alle obbligazioni assunte dai nobili "de Cella et de Rizoalio"nei confronti dello stesso Francesco e dei suoi antecessori e a ratificare la vendita fatta in Tortona " in forma camere" mediante un nuovo atto da farsi in Genova "cum solemnitatibus debitis et opportunis", essendo prevista una penalità di diecimila ducati per le rispettive inadempienze. Mentre il Fieschi ottempera al suo obbligo di presentare idonei fideiussori per le due rate a saldo da versare come sopra, il Malaspina non fornisce i documenti promessi, venendo a morire in data di poco anteriore al 19 dicembre 1495, giorno nel quale, davanti al podestà di Genova, il procuratore di Gian Luigi Fieschi, provvede perciò ad elevare formale protesta, chiedendone la notifica nei confronti di Galeazzo, Guiselo, Geronimo, Azone, Pietrino ed altri loro fratelli, figli ed eredi del suddetto fu Francesco, abitanti in Godano, giurisdizione di Antonio III Malaspina marchese di Mulazzo.
In realtà Francesco Malaspina, per la conferma della vendita da farsi in Genova "cum solemnitatibus debitis et opportunis", aveva rilasciato, il 4 settembre 1495, al notaio Giacomo de Scopesis di Castiglione un'ampia procura » (E. PODESTÀ, La Valle dell'Aveto. dai de Mileto, vassalli dei Malaspina, a Gian Luigi Fieschi, in I Fieschi tra Papato ed Impero. Atti del Convegno Lavagna, 18 dicembre 1994 a cura di D. CALCAGNO prefazione di G. AIRALDI, Lavagna 1997, pp. 394-395).

(14)
« Nel 1592 acquista per circa 300.000 lire il marchesato di Santo Stefano d'Aveto. Nell'agosto 1593 muore la madre Ginetta Centurione.
La salute del Doria è ormai malferma, in seguito a un "gran colpo" alla sue condizioni fisiche, chiede al re di essere sostituito nel comando delle galere. Il re respinge le dimissioni e lo nomina membro del Consiglio di Stato della corona spagnola.
[...]Nel 1599 dopo la morte del "gran re" Filippo II, ripresenta al nuovo sovrano le sue dimissioni, che vengono nuovamente respinte. Filippo III gli raddoppia lo stipendio, che viene portato alla somma di 40.000 scudi annui. 1601 All'inizio dell'estate viene nominato comandante della progettata spedizione contro Algeri, con circa 70 galere e 10.000 fanti; la flotta, partita con gravi ritardi (forse per cattiva volontà del viceré di Sicilia) venne tormentata da una tempesta di mare, con vento fortissimo e costretta a far ritorno a Minorca il 3 settembre. Presenta per la terza volta le dimissioni dalla carica. Che questa volta vengono accettate » (Vita del Principe Giovanni Andrea Doria scritta da lui medesimo incompleta, a cura di VILMA BORGHESI, Genova 1997, p. LI).

(15)
« Erano nell'armata tre figli di Antonio D'Oria. Scipione ch'era il primo, haveva cura delle galere del padre, ch'erano seij; Lelio il secondo, era della bocca del Re, e come giovine valoroso venuto a servire in quella giornata [si tratta dei preparativi dell'impresa di Tripoli nell'anno 1559]; il terzo era Cesare, che non haveva più di 17 anni. Il quale andando senza compagnia, né sapendo l'uso militare di non passare per il squadrone quando è fatto, salvo chi per autorità lo può fare, volendo passarvi, s'attaccò di parole con un soldato di qualche qualità che si chiamava Gio. d'Errera, dal quale ricevè un gran schiaffo et subito se ne andò a galera. Al Viceré et a Don Alvaro, il quale era quello di che dipendeva tutta la somma di quella giornata, spiacque il successo, ma si bene furono buttati bandi per trovar l'Errera, parve a molti che fussero fatti più per complimenti che per haverlo; et in effetto così era, che stava nascosto ne lo quartiero de' Spagnoli.
Questi fratelli dovettero trovare mezzi per sapere dove era, et una notte andò Lelio con 40 in 50 huomini delle sue galere, nelle quali et in tutte soleva andar molto meglio gente di quella va hoggi; et hebbero così buona fortuna che entrorno nella casa dove era costui, l'amazzorno e lo portorno nella piazza del palazzo ch'era molto lontano et ivi lo messero su un tappeto.
E venne poi Scipione alla Reale a dirmi che come capo della casa mi faceva sapere havevano vendicato Cesare loro fratello, contandomi che un soldato di molta stima per essere già stato alfiere, che si chiamava Thomas Lopes, per 500 ducati l'haveva detto come e dove stava, et la facilità havevano di fare quello che volevano.
Et essendo andato il Lelio in persona solo seco e riconosciuto esser vero, s'era risoluta la esequtione senza darmene parte, perché sapevano che come capo non celo haverìa permesso.
[...] Ma perché l'essere questi signori D'Oria figli d'Antonio, fattura del Prencipe mio Signore (se bene le fu poco grato, come anco lo furono molti a quali haveva fatto nobili benefici) mi obbliga a dire il fine di questo negotio, dico che il Lelio andò a Napoli con il fratello Cesare, dove era un * altro fratello* loro[Gio. Batta], et essendo andati tutti tre a Roma ad una giostra pubblica, s'attaccorno in strada con molti cavalieri Romani ch'erano tutti armati, dove fu morto il Lelio et gli altri dui, feriti malamente, furono salvati da persone che inclinate al bene si mossero nel mezzo del furor della briga » (Vita del Principe Giovanni Andrea Doria scritta da lui medesimo incompleta, a cura di VILMA BORGHESI, Genova 1997, p.72).
Secondo il CANALE dopo la congiura di Gian Luigi Fieschi, del 1547, Antonio Doria aveva solo quattro galere al servizio dell'imperatore Carlo V.
« ma Cesare [Carlo V] ritenuto Pontremoli che rimase riunito allo stato di Milano, donò al Doria [Andrea] Torriglia eretta in marchesato, Carrega, Garbagna, Grondona ed altri castelli; ad Antonio Doria che teneva quattro galee al servigio di lui, San Stefano di Aveto » (M. G. CANALE in Storia della Repubblica di Genova.
Dall'anno 1528 al 1550, ossia Le Congiure di Gian Luigi Fiesco e Giulio Cibo colla luce dei nuovi documenti. Narrate ed illustrate per il Commendatore Avvocato Michel- Giuseppe Canale Civico Bibliotecario, Genova 1874, p.274) Riteniamo che siano le stesse quattro che agivano già nel 1526 al comando di Andrea Doria.
« Stipulata la pace di Madrid [fra Carlo V Imperatore e il re di Francia Francesco I], Andrea Doria rimase praticamente disoccupato; accettò così, nel 1526 una condotta navale al servizio del papa. Si assunse cioè l'incarico di mantenere armate due galee proprie ed altre quattro del cugino Antonio, oltre a due brigantini, per un compenso complessivo di 27.000 ducati.
E sotto la bandiera pontificia, sino ad allora così poco fortunata, egli assalì e distrusse nel canale di Piombino la flottiglia di Sinan l'ebreo, luogotenente del celebre Khair ad-Din, detto il Barbarossa, un rinnegato dell'isola di Metelino fattosi pirata barbaresco » (CARLO BRIZZOLARI, Storia di Genova sul mare, vol. I, Firenze 1972, p.164).

(16)
« ASG, Archivio Segreto-Secretorum, filza 1557.: "Processo, ò vero essame di Juanino Bacigalupo" (17 luglio - 4 novembre 1584).
Le merci rubate dai banditi erano ricettate a Cabanne in Val d'Aveto e nella valle di Verzi; a Cerignale (giurisdizione Doria) si teneva un "mercato" del velluto rubato in Liguria » (O. RAGGIO, Faide e Parentele.
Lo stato genovese visto dalla Fontanabuona, Torino1990, p.36).
Cfr. Sandro Sbarbaro, Storie di banniti et mercadanti tra le valli dell'Aveto, della Trebbia e del Taro, in La montagna tosco-ligure-emiliana e le vie di commercio e pellegrinagGio Borgo Val di Taro e i Fieschi, Atti del convegno (Borgo Val di Taro, 6 giugno 1998), a cura di D. CALCAGNO, Borgo Val di Taro 2002.
Inoltre Cfr. Sandro Sbarbaro, Stradaroli. Storie di briganti tra Aveto e Trebbia, Storia Locale n° 18 , a cura di G. FERRERO, Biblioteca della Comunità Montana Alta Val Trebbia. Montebruno-Ge.

(17)
« L'ultima gesta di questo bandito, forse la più importante, che però decise dei suoi giorni, fu la seguente: Il Duca di Firenze nel recarsi a Genova, con la sua corte, per via di terra, appena entrato nella giurisdizione della Repubblica di Genova, a Pietracalice presso Centocroci, ebbe il saluto dei banditi. Il Crovo con un altro capo, certo Calcagno, e i loro uomini, attaccarono la retroguardia della comitiva, condotta da certo Giordano, sopraintendente ai bagagli.
L'impressione suscitata da quel fatto fu enorme.
La Repubblica doveva rispondere al Duca del delitto, e non potendo avere i banditi colla forza, si decise ricorrere al tradimento.
Il Conte Gain Luigi Fieschi, Signore di Santo Stefano d'Aveto, già altre volte protettore del Crovo, in quel frangente d'accordo col governo genovese, a 16 suoi bravacci banditi dalla Repubblica, propose l'uccisione del Crovo in cambio della Cancellazione del bando, che su loro gravava. A quei delinquenti, obbligati da tempo ad una vita passiva, che mal si addiceva ai loro istinti brutali, in quella proposta subito ravvisarono la realizzazione di un ottimo affare, poiché oltre aumentare l'aureola dei loro misfatti, quella operazioncella, avrebbe apportato loro la libertà.
Accettate pertanto le condizioni del Fieschi, impegnarono col medesimo la loro adamantina parola d'onore, che al Crovo la festa gliela avrebbero fatta, il che avvenne a breve scadenza, favoriti in parte dalla fortuna. La notte dal 15 al 16 agosto del 1543, il Crovo trovavasi a Rezzoaglio, in compagnia di altri cinque compagni, il Calcagno, il Massacano, il Bozono, il Tonso di Brignora e lo Stanga.
A loro insaputa, sopraggiunsero da Santo Stefano d'Aveto gli uomini del Fieschi, i quali appostatisi e fatti uscire con un pretesto i banditi, improvvisamente li assalirono, e nell'accanito combattimento che ne seguiva, il Crovo con tutti i suoi compagni vi trovarono la morte.
Il Capitano e il Commissario di Chiavari, richiesero allora quei corpi, per esporli impiccati sulla piazza della cittadella, in Chiavari stesso, onde dimostrare a quei cittadini, che l'ora della giustizia finalmente era suonata anche per i famosi banditi di Val di Sturla.
La casa a Rezzoaglio, dove quella notte il Crovo si era ritirato coi suoi compagni, è a credersi fosse quella del Posà attualmente in rovina, chiamata anche la casa dei Galli.
A comprovarlo stanno le caratteristiche, che essa aveva di Caminata cioè: situata in località isolata, munita di feritoie, e soprattutto, perché nelle sue adiacenze, vi è un vasto prato chiamato tuttora la guerra, nome forse impostole in quel tempo per definire il luogo dove il truce combattimento era avvenuto » (G. FONTANA, Rezzoaglio e Val d'Aveto (cenni storici ed episodi), Rapallo 1940 XVIII, pp. 79-82).
Cfr. G. PESSAGNO, Le bande di Val di Sturla, in « Gazzetta di Genova » , 1915,1916, 1917.
Cfr. inoltre: Sandro Sbarbaro, La fine del Crovo a Rezzoaglio in Val d'Aveto, in " Grïgua " , novembre - dicembre 2000, p.21.

(18)
Il sistema adoperato dalle "Magistrature" della Repubblica Genovese per ovviare alle continue faide fra "parentele" è quello di costringerli in qualche modo ad una pace generale, che in genere è celebrata in un luogo significativo, con l'ausilio di un cerimoniale che in qualche modo vincoli i "banditi" e la loro parentela al rispetto della "pace".
Per avere un quadro assai completo sul sistema delle faide è opportuno leggere il bellissimo libro d'OSVALDO RAGGIO, Faide e Parentele. Lo stato genovese visto dalla Fontanabuona.

a) « Nel 1596 il capitano di Chiavari giudica "imperfetta" la pace tra i Cella e i Bacigalupo "per non esserli intervenuti quelli della Cella che abitano nel marchesato di San Stefano" (ASG, Senato- Litterarum, filza 563) » (O. RAGGIO, Faide e Parentele. Lo stato genovese visto dalla Fontanabuona, Torino1990, p. 36).

b) « Ex parte altera. Atendentes assidue q[ue] hostis humane nature vitat? detinere peccatores laqueatos? de pote[statem]? cuius nequeunt liber nisi p[adro]ne? ducat dextera Salvatoris et volentes summa p[at]ris vestigia imitare qui manifeste appares eius discipulis dixit Pax vobis ad relig[ios]us Christiane exemplum, et cupientes multis eor[um] littigiis guerris odiis inimicitiis finem ponere et laboribus parcere.
Ideo dicte partes et una quoque eor[um] sponte et ex? ipsor[um] certa sci[enti]a nulloq[ue] iuris vel facti errore ducti seu mo[do] aliquo cirquenti? sed o[mn]ibus meliori mo[do] Iure via et forma quibus melius potuerunt et possunt fatentur una alter et altera unitam respectu dicte p[ar]entelle et c[on]vinta q[ue] ... p[ro] ut melius expedit mellio? et interpositione no[n] nullor[um] p[ro]bor[um] de et super omnibus odiis rancoribus goerris inimicitiis lexionib[us] p[er]cusionibus offensis vulneribu[s] et homicidiis in ipsas partes huiusq[ue] quovis modo q[uo]vis tempore et q[uo]vis de causa nulla exclusa secutis, sed super o[mn]i eo et toto p[ro] et q[uo] tu[nc] una pars ab alt[er]a et e c[on]verso? possa? fuisset que omnia hic in p[rese]nti Instr[ument]o pro inserta habeant etiam sit alia forent? que viderentur exigi mention[i]s spetialem tandem nihil exclusum p[er]venisse p[ro] ut pervenerunt ad bona veram et amicabilem pacem et c[om]positione[m] et in signu[m] vere bone p[er]fecte pacis se se pro maiori parte et precipue banniti ample[...]? fuerunt simul q[ue] biberunt in eodem ciato ve[l] sepius in similib[us] fieri solet facientes sibi invicem et vicisim finem quitatione[m] et remissione[m] de omnibus p[re]missis usq[ue] in hodiernu[m] salva tu[nc] semper pote[statem] in p[resen]tis cor[am] d[ict]i arbitris.
Promitentes sibi invicem et vicisim in futuri no[n] facere aliquam offensam ingiuria[m] neque lesionem nec quoq[uo] mo[do] se se offendere verbo dictu opere? neq[ue] ess[e]r[e] in p[er]sonam nec in ... nullaque offensio.
In verit[ate]m facere de die nec de nocte p[er] se se vel interposita[m] p[er]sonam.
Imo dictam pacem perpetuis temporib[us] firma[m] gratta[m] ratta[m] q[ue] habere et ad plenu[m] observare cu[m] o[mn]ibus in p[resen]tis - sub pena scutor[um] tricentor[um] supram pena[m] cadat pars c[ontra]faciens toties quoties c[ontra]ven[u]tum fuerit, aplicata et quam ex nunc p[ro] ut ex tunc aplicant p[er] dimi[di]a? resp[pect]u? subdditor[um] Ill[ustrissimo] D[ominio] Ex[celentissi]me Rep[ublice] Gen[uense] et alior[um] Iurisdictione[m] exclusa tu[nc] Iur[isdictio]ne Ill[ustrissimo] D[omino] Pagani de Auria (Archivio di Stato di Genova, 1573, Senato Atti, filza 1455, Doc.41) » (G. FERRERO, La Pace di Casanova.
Documento Notarile Cinquecentesco, Conferenza organizzata dal Comune di Fontanigorda, Fontanigorda 19/8/94).
Inoltre Cfr. G. FERRERO, La Pace di Casanova, Storia Locale 17 a cura di G. FERRERO, Biblioteca della Comunità Montana Alta Val Trebbia. Montebruno-Ge, p.13.

c) « + adì detto. [+ 1584 adì 26 di Giugno] Maxina moglie di Giancardo Boitano di Barbazelata testa citata per informazione, como sopra, dattoli Giur[amen]to. Per suo giur[amen]to testificando dice il martedì che fu li 12 del presente mese capitò in casa mia a disnare in Barbazelata dove faccio hostaria, Nicolino de Condorso [Codorso] et Agostino suo fratello et Batta della Cardenosa tutti della parentella dei Bixi di val d'Alto [Val d'Aveto] li quali dissero che venivano da Torriglia da far pace con li Ferretti et in casa di Battino Boitano mio cognato il quale ancor lui fa hostaria appresso alla mia, vi disnò in un medesimo punto Gioanni, Andrea, et il Bixo tutti della parentella de Bixi di val d'Alto ancora, li quali dissero ancor loro che venivano da Torriglia per detta causa. (Archivio di Stato di Genova, Sala Senarega, filza n.° 526) » (G. FERRETTI, La cattura del "Billo", Storia Locale N°20, a cura di G. FERRERO, Biblioteca della Comunità Montana Alta Val Trebbia. Montebruno-Ge, p.14).

(19)
Cfr. O. RAGGIO, Faide e Parentele. Lo stato genovese visto dalla Fontanabuona, Einaudi, Torino, 1990, p.194.

(20)
Documenti, rinvenuti da Sandro Sbarbaro in Archivio di Stato a Genova.

« Lista de banditi dal Capitaneato de Chiavari Lista de banditi[perpetui] sino a qui fatti dal Magnifico Paolo de Franchi Capitaneo. [...] + 1583 a otto di agosto Paolo Gieronimo dalla Cella di Polidoro bandito in vita per havere ordinato a Antonio del Coneo che amazi Cesare Bacigalupo del q. Gio. Batta, e per tal ordine fu il Cesare ferito dal Antonio con qualche pericolo di vita. + a, detto giorno Rolandino Cella di Herculino per avere approvato detto mandato consigliato, e solecitato l'Antonio e prestatoli il coltello accio amazase il Cesare, bandito per anni quindeci e se fra detto termine pervenirà nelle forze della giustitia sii condotto alle galere, a vogare per diece anni (ASG, Rota Criminale, filza 1226) » "Biglietto" di ricevuta, che testifica l'accompagnamento alla galera, in qualità di forzato ai remi. « + 1580 a dì 24 di decembre. Io Batt[is]ta Gatto aguzile della Galera Cap[ita]na della Ser[enissi]ma Si[gno]ria ho ricevuto da voi Fr[ances]co Passano barigelo del S[igno]r Gio B[att]a de Neg[r]o Comm[issar]io Andrea Consegliero q[u]ale ho fatto mettere alla Catena, E, in fede de ciò ho fatto s[cri]vere e sottos[cri]vere la p[rese]nte a Gio Ag[osti]no Falcone s[cri]vanello in sud[ett]a Gal[er]a- Io Gio Ag[osti]no Falcone ho s[cri]tto, E, sottos[crit]to la p[rese]nte di volontà del sud[ett]o M[e]s[er] b[arigel]o di meo p[u]g[n]o? Il sud[ett]o forsado lo ho consignato per doi anni alla catena ---- (ASG, Rota Criminale, filza 1223) »

Altri due "biglietti" di ricevuta d'accompagnamento alla galera. « + 1584 die 19 Maii Si fa fede qualm[en]te Bar[tolom]eo Baitano (Boitano) bargello ha condutto da Chiavari dal S[ign]or Com[missa]rio Pier Maria Ferrari. Batta Queirolo et Angelo Bacigalovo (Bacigalupo) nella Galera Cap[itan]a della Ser[enissi]ma Sig[no]ria Copia B[attis]ta Gatto agozille Nella Canc[elleri]a del ... Gio Fr[ances]co Rosso Canc[elle]ro + 1584 a dì 3 de luglio Si fa fede qualm[en]te Fran[ces]co Pasiano (Passano) bari xello de Canpagna (Campagna) del S[igno]r Comesario Petro Maria de Ferari a condutto da Giavari (Chiavari) Alisandro Cordonario de Fontana bona Nella galera Cap[itan]a della Ser[enissi]ma S[igno]ria Batta Gatto agozille (ASG, Rota Criminale, filza 1226) » N.B. l'agozille, o aguzzino, dallo spagnolo alguacil, era l'ufficiale della flotta incaricato delle ciurme. Aveva in custodia i condannati alla galera, levava e rimetteva le catene e sorvegliava che non fuggissero. Cfr. Vita del Principe Giovanni Andrea Doria scritta da lui medesimo incompleta, a cura di VILMA BORGHESI, Genova 1997, p.83.
Oltre la metà del 1600, nostri valligiani o membri di parentele affini, implicati in episodi di banditismo, sono ancora condannati ai remi. Riportiamo un estratto da ASG, Rota Criminale, A.S., Banditorum anno 1660-1743, filza 1025.

Bannitorum Originis ab anno 1660 an 166.

Barth[olom]eus Repetus Anno 1663 28 februarii dam[natu]s a Cap[itaneo] Clavari in 5.lem releg[atione]m in Regno Corsica cum conmi.° triremi ut in Sum.° Clavari anni 1662 in 63 n°4 Anno 1663 28 febbraio- Bartolomeo Repetto è condannato, dal Capitano di Chiavari, alla relegazione nel Regno di Corsica su una trireme.

Jo[an]nes Antonius Cella Cesaris Anno 1674 a Cap. Clavari dam[natu]s in perpetuo Remigis ut in Sum.° Clavari anni 1674 in 75 n°12- Anno 1674 - Giovanni Antonio Cella di Cesare, dal Capitano di Chiavari è condannato alla pena perpetua di vogatore [sulle galere o trireme della flotta della Repubblica di Genova].

Nicolinus Sbarbarus Anno 1661 13 Januarii a Cap[itaneo] Clavari dam[natu]s in penam perpetui Remigis ut in Sum.° Clavari anni 1660 in 61 n°2 Anno 1661 13 Gennaio- Nicolino Sbarbaro dal Capitano di Chiavari è condannato alla pena perpetua di rematore [sulle galere o trireme della flotta della Repubblica di Genova].

Jo[an]nes Maria Bitius Anno 1669 a Cap. Bisani: dam[natu]s in penam an[nos] 8.° Remigis ut in Sum.° Bisani: anni 1669 in 70 n° 15 Anno 1669 - Giovanni Maria Biggio dal Capitano del Bisagno è condannato alla pena d'anni otto ai remi [sulle galere o trireme della flotta della Repubblica di Genova].

Jo[an]nes Bapt[ist]a Feretus Anno 1671 a Pretore Roccataliate dam[natus] in annos 5.e Remigis et in £ 100 ut in Sum° Roccataliate anni 1670 in 71 n°2 Anno 1671- Giovanni Battista Ferretto dal Pretore di Roccatagliata è condannato a cinque anni ai remi [sulle galere o trireme della flotta della Repubblica di Genova]. Bapt[ist]a Cella q. Jo[hannis] Anno 1672 a Cap[itane]o Clavari dam[natu]s in annos 10 Remigis ut in Sum.° Clavari anni 1672 in 73 n°1 Anno 1672 - Battista Cella fu Giovanni dal Capitano di Chiavari e condannato a dieci anni ai remi [sulle galere o trireme della flotta della Repubblica di Genova].

Barth[olom]eus Cella Anno 1673 a Cap[itane]o Bisannis dam[natu]s in an[nos] 15 Remigis ut in Sum.° Bisannis 1673 in 1674 n.°2 Anno 1673- Bartolomeo Cella dal Capitano del Bisagno è condannato a 15 anni di remeggio[sulle galere o trireme della flotta della Repubblica di Genova].

É interessante notare che è del1672 la grida emanata dal "dottore in ambe le leggi" Pietro Cristiani, nella quale, riguardo alla selva del Penna, si legge"... Sono esclusi legnami da serra e remi da galera e questi non esclusi debbono essere marcati prima di portarli di marca S. di fuoco".

(21)
« A Genova, intanto, nel 1582 era stata istituita una squadriglia di galee, detta dei Particolari, al comando di Gian Andrea Doria, che però venne temporaneamente ceduta in assento alla Spagna.
Alla morte del Doria, nel 1606, il comando passò ad altri, rimanendo però sempre sotto il controllo della famiglia Doria-Tursi » (CARLO BRIZZOLARI, Storia di Genova sul mare, vol. I, Firenze 1972, p.225).
Regesto, che rilevai,da un documento del notaio Nicolò Repetto (ASG, Notai Antichi, filza 13192).
n. 847 A 1699 d[ie] veneris 24. Julii in v[esper]iis ad I. B. In nomine D[omi]ni ... ... Ec. D. Paulus Aloisius Sorba Commis[sari]us Turrilia vigore litteram Dominical[em] Die 21 X.mbre 1693 tenoris seq[uent]is Luogotenente di Torriglia Al maritare di questa figlia, il cui nome sarà scritto à piedi della p[rese]nte le dovete lire cento in dote Came[ra]le che è un elemosina che le fa il Marchese di Torriglia m[i]o figlio p[er] il quale le direte che ella preghi, e che ella renda grazie al S[igno]r Iddio e alla Santiss[i]ma Vergine sua Madre di haverlo liberato dal pericolo, che hà corso di naufragare nel Cavo (a) Corso sotto la notte avanti il giorno di Santo Andrea; e Dio vi guardi.
Pegli 21. De[cemb]re 1693.
Firmat[o] Gio And[re]a Doria (b) M[ari]a Molinari figlia di Domenico di Montebruno Il Com[missa]rio .... esseguisca.
Genova 18 luglio 1699-
(a) Cavo Corso sta per Capo Corso.
In genovese Cavo corrisponde anche a Capo.
(b) Il Gio. Andrea Doria che si firma è Gio Andrea III Doria (1653 - 1737), marito d'Anna Pamphili, figlio di Andrea III Doria-Landi (1628 - 1654) e di Violante Lomellini.
Violante Lomellini è colei che nel 1659 essendo reggente del feudo di Santo Stefano d'Aveto, a causa della prematura scomparsa del marito Andrea, diventerà patrona dell'erigenda parrocchia di Priosa d'Aveto: « Si sono anche obbligati detti uomini della Priosa di dare al loro Rettore che sarà istituito pro tempore et in perpetuo lire centootto moneta di Genova, come appare da uno delli detti instrumenti, che ambidoi si esibiscono, et lire cinquantadue moneta simile per legati già lasciati a detta chiesa della Priosa e perché la medesima chiesa della Priosa possi mantenersi, con occasione si separerà dalla matrice delle Cabanne, come più volte si è supplicato (non mai ottenuta prima dall'ora. (n.a.) l'Ecc. ma Sig.ra Principessa Doria Lomellina padrona di quelli luoghi, mossa per zelo di carità, vedendo, che molte persone muoiono senza li debiti Sacramenti per la lontananza de luoghi, si è obbligata, come obbliga li suoi successori in perpetuo di dare al Rettore da essa Signora Principessa nominato, e che prò tempore sarà eletto, lire duecentoquaranta moneta di Genova con riserva ecc...nominando et eleggendo per primo Rettore il Rev.mo Prete Stefano Barbieri » (G.B. MOLINELLI. Brevi cenni sulle origini e vicende storiche di Cabanne (d'Aveto) e Relazione morale e finanziaria del Comitato Pro Asilo e Scuola, Genova 1928, pp.19-20.
Altresì donna Violante Lomellini istituì una zecca in Santo Stefano d'Aveto, che durò un brevissimo periodo.
« Si ha notizia che nel 1668 Bartolomeo Pareto di Lorenzo ottenne dalla Principessa Violante Doria Lomellina "permesso di costruire una zecca nel Borgo di Santo Stefano", e si sa che "li operari francesi" adibiti al conio, adattarono per tale scopo una delle più belle stanze del castello. Si avevano scudi d'argento, libre e soldi di S. Stefano. » (G. GAMBARO OTTONE, Santo Stefano e le sue passeggiate, Genova 1942, p.10).
Cfr, A. OLIVIERI, Monete, medaglie, sigilli dei Principi Doria, Genova, 1858.
Per conoscere altre zecche dei feudi Imperiali volute da Violante Lomellini, Cfr. G. FERRERO, La zecca di Montebruno, Storia Locale N° 1, Biblioteca della Comunità Montana Alta Val Trebbia.
Montebruno-Ge, e G. FERRERO - F. FOGLINO, La zecca di Rovegno, Storia Locale N ° 23, Biblioteca della Comunità Montana Alta Val Trebbia. Montebruno-Ge.
Il figlio di Gio Andrea III Doria che ha rischiato il naufragio presso Capo Corso, probabilmente, è Andrea IV Doria-Pamphilj (1674 - 1720) che sposerà Livia Centurione.
Per la genealogia dei Doria Cfr. Vita del Principe Giovanni Andrea Doria scritta da lui medesimo incompleta, a cura di VILMA BORGHESI, Genova 1997, p. XLIV.

N.B.
L'autore sarà grato a tutti coloro che, gentilmente, vorranno segnalargli (via e-mail) errori o omissioni.

 


 

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Pagina pubblicata il 28 agosto 2004, letta 13533 volte dal 23 gennaio 2006
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