Valdaveto.net > Caccia e pesca > La caccia ai giorni nostri e l'impoverimento faunistico
Durante i primi sessant'anni del XX secolo il patrimonio faunistico dei nostri paesi subì una crescita, forse
dovuta all'introduzione della regolamentazione che vietava la caccia durante certi periodi dell'anno, salvaguardando
la riproduzione.
Ricordo perfettamente quando, negli anni cinquanta, sul territorio del comune di Fontanigorda
le lepri si trovavano ovunque in gran numero, nonostante venissero abbattuti annualmente più di cinquanta capi.
Vi erano pure numerosi voli di pernici rosse che, al contrario del precedente secolo, allora venivano cacciate da cacciatori provenienti da Genova e dalla Riviera di Levante.
I cacciatori locali, fino a tale periodo, avevano esercitato prevalentemente la caccia alla lepre secondo la vecchia
tradizione raccontatami da mio nonno e descritta nell'articolo "La caccia al tempo dei nostri avi".
Le guardie venatorie intervenivano sul territorio per controllare e ridurre il numero delle volpi (allora ritenute fra
i nocivi).
I cacciatori avevano ormai raggiunta una certa mentalità sportiva, erano loro stessi che collaboravano per la salvaguardia del patrimonio venatorio.
Dopo gli anni sessanta la regolamentazione sulla caccia introdusse nuove norme atte a salvaguardare ulteriormente il
patrimonio faunistico stanziale dei nostri monti, ma esso stava subendo profondi cambiamenti che, durante gli ultimi
quarant'anni, portarono all'attuale situazione.
L'impoverimento del patrimonio naturale viene attribuito all'inquinamento dovuto alla massiccia presenza dell'uomo che
tenta di sfruttare la natura alla ricerca d'interessi immediati.
Nei nostri paesi succedeva il contrario.
L'impoverimento faunistico era dovuto allo spopolamento della montagna che aveva causato un completo cambiamento
dell'habitat, in cui diverse specie della fauna selvatica non riuscivano più a vivere.
La pernice rossa fu tra le prime ad abbandonare il nostro territorio, nonostante essa sia una specie relativamente
adattabile a diversi ambienti.
Gli vennero a mancare aree aperte e cespugliate, soleggiate e a clima secco, come pure i campi coltivati e i pascoli
dove essa si procurava il cibo.
La cesena in primavera non venne più a nidificare nei nostri boschi.
Il merlo allora era stanziale ed ora invece è costretto ad emigrare in riviera. Non trova più il cibo che,
durante l'inverno, si procurava nei fienili e nel letame delle stalle.
Gli esemplari di lepre che ancora rimangono
hanno dovuto adattarsi a un ambiente che non offre più ad essi verdi prati e pascoli con spiazzi e sentieri
facilmente percorribili, essenziali per la loro sopravivenza.
Gran parte degli uccelli migratori non ritornano più.
Unico a resistere tutto l'anno sul posto è il passero.
Verso gli anni settanta venne introdotto il fagiano, che inizialmente trovò un ambiente a lui
favorevole, dove abbondavano i roveti nei quali ama rifugiarsi.
Per alcuni anni riuscì a riprodursi, ma poi venne il cinghiale.
Il cinghiale vive nel folto della vegetazione, lo stesso ambiente del fagiano.
Ha abitudini crepuscolari e notturne e si ciba anche di uova e nidiacei di uccelli terragnoli.
Pertanto le nidiate del fagiano dovettero fare i conti con l'implacabile onnivoro predatore notturno dal finissimo olfatto.
Quindi anche il fagiano fu costretto ad emigrare altrove.
Il mutamento ambientale delle nostre vallate è tuttora in atto; l'unico selvatico che si è adattato magnificamente al nuovo habitat è il cinghiale il quale partecipa al processo di trasformazione dell'ambiente contribuendo ad eliminare gli ultimi prati e le ultime radure rimaste.
I disegni sono tratti da "La caccia", AA.VV., Dero Vallardi edizioni periodiche, Torino 1979
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Pagina pubblicata il giorno 11 maggio 2006, letta 9850 volte
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