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La pesca alla trota nei tempi andati in Val d'Aveto

di Sandro Sbarbaro

Nella stagione estiva era uso presso i valligiani di Sbarbari (villa nel territorio della parrocchia di Priosa d'Aveto) che si recavano a pastore, ossia a pascolare le mucche, scendere al fiume per pescare le trote.
Questo passatempo rendeva meno monotone le giornate d'ozio passate a guardia delle mucche che pencolavano indolenti brucando instancabili.

In genere a pastore andavano i giovincelli, qualche uomo anziano o qualche donna, secondo la disponibilità della famiglia d'appartenenza.
Gli uomini svolgevano in genere i lavori più pesanti: al pascolo erano necessari esclusivamente occhi vigili e tanta pazienza.
Per far trascorrere il tempo le donne si portavano appresso piccoli lavori di filatura o di rammendo.
I giovani invece si dedicavano alla costruzione di capanne di frasche oppure di piccoli casoni in pietra per rifugio in caso di temporali; a volte intagliavano bastoni o cantavano canzoni.
Gli anziani alcune volte si univano loro scambiando quattro chiacchiere, raccontando leggende, oppure sistemavano i sentieri e riaggiustavano le fonti.
Ma la passione di tutti era abbandonare per qualche tempo le vacche al loro destino e recarsi al fiume a pescare le sguscianti trote.
Nella stagione estiva ciò era favorito dal fatto che i torrenti entravano in secca e quindi, diminuendo l'invaso, era più semplice dare loro la caccia.
Il sistema più usato nell'alta Val d'Aveto per catturare le trote era di frinciunà: si inserivano ripetutamente pertiche appuntite sotto gli scogli o le pietre ove le trote si rifugiavano, in modo tale da stanarle per poi seguirle dove si andavano a rifugiare. Se il luogo era accessibile, ossia se la pietra o lo scoglio erano assai prossimi alla riva o perlomeno in una posizione del fiume raggiungibile senza temere di finire a bagno, si cercava di catturare la preda con le mani, operazione non semplice visto che lo sgusciante animale stava sempre all'erta, pronto a spostarsi al minimo sentore di pericolo.
Bisognava essere davvero bravi.
Una volta stretto fra le mani, occorreva impedire che il pesce sgusciasse via ancor prima di averlo posto a secco sul greto del fiume, ove in genere veniva ucciso sbattendolo su una pietra.
I più in gamba sapevano immobilizzarlo infilando un dito in una branchia: ciò era una garanzia se si voleva estrarlo dall'acqua senza rischiare.
Altro sistema era quello di far risalire la trota lungo tratti di fiume sassosi e con poca acqua ove veniva catturata a bastonate.

Un dì della prima metà del novecento lungo i pascoli che disegnano con i loro declivi il corso dell'Aveto, Luigi Sbarbaro, detto Luigin du Zerga, uomo dalla battuta sempre pronta e già in là con gli anni, si aggregò ai giovanotti che si erano riuniti presso il fiume per una battuta di pesca.
Data la sua zoppia venne posto in un tratto di fiume sassoso ove l'acqua scemava.
Mentre i giovani rugavano, ossia rimestavano, con pertiche sotto pietre e scogli, Luigin aveva una pertica in mano con la quale colpire le eventuali trote in fuga.
Ad un tratto una trota disturbata da una pertica prese a fuggire impazzita verso il tratto di fiume ove Luigin era appostato.
I ragazzi avvertirono l'uomo.
"Luigin piggèla! Luigin piggèla!"
Luigin iniziò a menare bastonate a dritta e a manca in quel tratto poco profondo del fiume.
I ragazzi invescendai domandarono all'uomo: "Luigin l'èi piggià? Luigin l'èi piggià?"
E lui di rimando: "L'ò piggià tutta!", ossia "L'ho presa tutta [l'acqua che è schizzata]!"
E poi, pensando alla trota in fuga, soggiunse: "Se a cùre cumme a l'è passà chì a quest'ura a l'è in ti Sbarburi!", ossia "Se corre [veloce] come è passata da qui, a quest'ora è negli Sbarbari!
Ricordo che il paese di Sbarbari era a circa venti minuti di cammino dal luogo della battuta di pesca.

 


 

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Pagina pubblicata il 30 maggio 2005, letta 9677 volte dal 23 gennaio 2006
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