Cichorium intybus

Cicoria, radicchio

di Giorgio Venturini
testo tratto da "Atti del convegno internazionale 'La Liguria, dal mondo mediterraneo ai nuovi mondi. Dall'epoca delle grandi scoperte alle culture attuali' (Chiavari, 30 novembre - 2 dicembre 2004)", Genova, 2006, pagg. dalla 413 alla 423
fotografia di Paolo Turina e Stefano Franzoso

 

Il declino del sistema tradizionale agro-silvo-pastorale

Nella dinamica della produzione culturale la relazione uomo-natura è di importanza fondamentale. Per tale motivo approfondirne la conoscenza costituisce il primo passo per prendere seriamente contatto con gli aspetti di una cultura rurale tradizionale come quella avetana.

La forma economica scaturita nei secoli dal rapporto uomo-ambiente nella Valle dell'Aveto è quella mista agro-silvo-pastorale. Si tratta di un'economia naturale, di autosussistenza, con scarsa circolazione della moneta, con unità produttive di modeste dimensioni e in cui era fondamentale la presenza della proprietà indivisa, le cosiddette comunaglie. Tale forma economica (denominata anche outfield-infield system) si basava sullo sfruttamento multiplo delle scarse risorse offerte dall'ambiente che il contadino-montanaro sapeva gestire con estrema oculatezza tanto da potersi affermare che egli agiva secondo criteri - come diremmo noi oggi - ecosostenibili.

Val d'Aveto (fotografia di Paolo Turina e Stefano Franzoso)

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Il vivo attaccamento e l'identificazione con la terra, bene primario dalla quale ha tratto da sempre, con fatica, il proprio sostentamento è, ancor oggi, fortemente radicato nella popolazione locale che, per secoli, ha vissuto in rapporto simbiotico con essa.

Tale gestione locale e comunitaria delle risorse e del territorio entra in crisi con la fine dell'Ancien Régime allorché non sono più tollerate le consuetudini locali e vengono aboliti capitoli e statuti campestri. Il passaggio a una gestione centralizzata e rigidamente istituzionalizzata sarà fatale per la sopravvivenza del mondo rurale tradizionale e per l'equilibrio ambientale stesso venendo meno la preziosa attività di presidio da sempre attuata dal contadino. Questa trasformazione può essere indicata come il trapasso dal modello comunitario, su cui si basavano le società tradizionali premoderne, a quello societario-contrattualistico estraneo a tali società e dove a prevalere è l'individuo.

Con l'avvento di Napoleone, infatti, il regime forestale andò progressivamente sostituendosi a quello consuetudinario. Si diffonde un modello di astratta uguaglianza che ignora l'atnodiversità e crolla il sistema feudale che, pur essendo stato indubbiamente oppressivo, aveva, tuttavia, saputo rispettare i delicati equilibri su cui si fondavano le microeconomie locali. Prende, così, l'avvio il lento ma inesorabile sgretolamento della società rurale tradizionale. Ai campari vengono sostituite le guardie forestali e inizia a crearsi quella frattura fra il mondo contadino e i "gestori del mondo naturale" che, ancora oggi, è alla base della diffidenza nei confronti dei parchi e dei guardia parco spesso assimilati alle guardie forestali di napoleonica memoria.

Nelle ripartizioni politiche si verifica il primato dell'idrografia sull'etnografia. Le montagne non sono più considerate ponte ma ostacolo allo sviluppo della città borghese e delle sue attività industriali. La città diviene l'unica protagonista mentre l'interno montano, sempre più abbandonato e marginalizzato, perde progressivamente i contatti con essa. Ciò contribuisce ad acuire il distacco culturale tra città ed entroterra e quel senso di sfiducia verso le istituzioni ancor oggi diffuse nella Valle.

Con provvedimenti come quelli contenuti nelle Regie Patenti del 1822, che vietavano il pascolamento delle capre, e nella legislazione del Codice Forestale del 1833 vengono fortemente limitate le possibilità di sfruttamento delle risorse naturali locali. In particolare estremamente dannosa si rivelò l'impossibilità di poter usufruire delle pratica del ronco, del pascolo vago e dei beni comuni, che vennero definitivamente abrogati nel 1927 dal regime fascista in nome della diffusione di un'agricoltura moderna basata sulla proprietà privata.

Dell'apposizione di vincoli e di assurde limitazioni durante l'Ottocento resta memoria in alcune lettere e delibere che ho rinvenuto nell'archivio comunale di S. Stefano d'Aveto. In una di esse (contenuta nel registro delle delibere comprese fra il 15 aprile 1896 e il settembre 1899) si afferma: "... è dovere dell'Amministrazione comunale di adoperarsi affinché cessi uno stato di cose insopportabile; il vincolo che grava il territorio di questo comune è una vera oppressione, atta a fomentare disordini nella popolazione...". Il testo prosegue spiegando come la legge forestale sia stata ingiustamente applicata a quasi tutto il territorio del comune e dichiara che "gli elenchi di vincolo sono una vera mostruosità" lamentando, inoltre, come "il vincolo forestale, applicato alla rinfusa in questa Valle, colpisca contrariamente alla Legge stessa moltissimi terreni, i quali, per laloro posizione e per la loro natura, dovrebbero essere immuni da vincolo, causando così un serio danno alle popolazioni, che, vivendo sulla pastorizia, sono obbligate ad emigrare per poter vivere... deplorando nello stesso tempo come una Commissione, mandata circa tre anni or sono, onde riferire delle giuste lagnanze delle popolazioni, quasi deridendo le stesse, non sia andata a visitare alcuna località e si sia mantenuta semplicemente sulle strade pubbliche, da ove non si possono vedere i boschi ed esaminare la natura del terreno".

Lentamente ma progressivamente penetrarono nel mondo rurale tradizionale, deteriorandolo, i principi dell'economia di mercato e dell'individualismo agrario. Ai contadini è stato impossibile commercializzare i loro prodotti sia perché avevano a disposizione ben poche eccedenze sia per il disagio ambientale sia, infine, per gli alti costi di produzione. La proprietà indivisa divenne proprietà privata sulla quale iniziarono a gravare le imposte fondiarie. Ciò ebbe come conseguenza la polverizzazione del territorio e ciò che restava dei beni frazionali poté essere sfruttato dalla popolazione solo dietro il pagamento di un canone di affitto. Di fatto alle popolazioni locali sono stati tolti i mezzi di tradizionale sostentamento così che in tante valli dell'interno (tra cui la Val d'Aveto) si è verificato un grave degrado socio-economico e ambientale che, purtroppo, tuttora sussiste.

Per questo urge un serio intervento che possa valorizzare il territorio ridando finalmente dignità alla sua popolazione.

 

L'importanza di preservare la diversità culturale

Uno dei rischi legati al mondo globalizzato è l'annullamento delle differenze culturali con la conseguente negazione non solo della cultura stessa ma anche della storia e dell'ambiente traducendosi in una banalizzazione del paesaggio il quale, com'è noto, è frutto di un ben determinato paesaggio culturale. Ambienti come quelli che possiamo osservare in Val d'Aveto presentano ben pochi caratteri di natura selvaggia o completamente spontanea (wilderness) e sono, piuttosto, il risultato della millenaria opera dell'uomo sull'ambiente che lo circonda. Secondo la stessa Convenzione Europea del Paesaggio predisposta dal Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d'Europa, infatti, il paesaggio è anche e soprattutto "una componente essenziale del quadro di vita delle popolazioni, l'espressione della diversità del loro comune patrimonio naturale e culturale e il fondamento della loro identità".

L'invasione del modello urbano del consumo ha messo in crisi la cultura delle aree montane impregnando di sé ogni aspetto della vita quotidiana. Troppo spesso considerate una sorta di "scoperta" dei cittadini (e di conseguenza considerate prive di un passato e di un futuro autonomo) tali aree sono fatte oggetto di tentativi di museificazione e folklorizzazione da parte della società industrializzata che mira a costruire (per rifugiarvisi) un'immagine idilliaca della cultura e dell'ambiente montano riuscendo soltanto ad isterilire entrambi. La cultura, infatti, rifiuta la staticità ed è, al contrario, dinamismo e trasformazione continua.

Il venir meno delle attività tradizionali, oltre ad una perdita in termini di cultura, comporta altresì una semplificazione del paesaggio e dell' ecodiversità scomparendo alcune specie legate alle pratiche di coltivazione e governo dei boschi. Per questo le attività agro-silvo-pastorali non devono essere emarginate a favore di uno sterile conservazionismo naturalistico ma possono giocare un ruolo di primo piano sia nell'ambito dello sviluppo locale sia nella conservazione degli ecosistemi e dei biotopi.

Occorre, pertanto, rispettare, conservare e promuovere l'identità culturale e sociale delle popolazioni locali montane come quella avetana e assicurarne le risorse vitali di base mirando ad uno sviluppo economico compatibile con l'ambiente affinché, attraverso la valorizzazione del patrimonio culturale e naturale, le zone montane possano tornare ad essere uno spazio per vivere e non solo uno spazio per il tempo libero.

È di fondamentale importanza comprendere che boschi e pascoli sono risorse che, attraverso un corretto rapporto uomo-ambiente, rappresentano un bene naturale da salvaguardare ma anche un bene sociale in quanto hanno una funzione produttiva che può ridare un senso alle attività e alle culture locali montane che vivono da più di un secolo in una condizione di penalizzante inferiorità politica.

L'ambiente, quindi, non va difeso soltanto in quanto natura ma, soprattutto in un territorio come quello ligure, va salvaguardato quale armonioso intreccio di natura e cultura in cui entrambi gli elementi traggono reciproco vantaggio dalla loro coesistenza.

Dal momento che non esistono soluzioni preconfezionate adatte ad ogni luogo e ad ogni stile di vita occorre avviare un'indagine dei modelli culturali rurali (in particolare delle pratiche "culturali-colturali" consolidate dalla consuetudine e dalla condivisione sociale) cercando il dialogo e il confronto con la popolazione locale al fine di intervenire sul territorio con i provvedimenti più adatti. La cultura rurale anziché esclusa può, infatti, divenire una risorsa preziosa nell'ottica di uno sviluppo ecosostenibile uscendo così finalmente da quello stato di minorità per cui essa è stata a lungo erroneamente considerata un intoppo alla modernizzazione.

La questione dell'identità delle genti montane, quindi, può essere trattata in maniera nuova: attribuendole, cioè, il suo giusto valore e restituendole dignità di fronte ai dominanti modelli culturali urbani.

 

Il Parco come strumento per valorizzare l'identità locale

Un valido aiuto al fine di recuperare la propria identità e conquistare una maggiore consapevolezza della propria storia e delle proprie tradizioni potrebbe essere offerto alla popolazione locale avetana proprio dall'istituzione "parco" il quale deve puntare sull'innovazione e su un alto livello di offerta per il turismo e la salute prefigurando nuovi scenari e nuove connessioni territoriali. Sfruttando la natura dinamica della cultura occorre combinare in maniera innovativa gli elementi tradizionali con quelli (post)moderni. In quest'ottica i parchi possono diventare un laboratorio sperimentale in cui progettare un nuovo sviluppo e modalità alternative di organizzazione del territorio e della società proponendo così soluzioni inedite e rappresentando altresì un esempio possibile anche per altre aree senza limitarsi ad essere un'oasi o una riserva a sé stante e scollegata dal resto del territorio. Un parco deve, inoltre, sapersi adeguare alle esigenze della popolazione e anche modificarsi nel tempo seguendo la dinamica dei cambiamenti delle condizioni locali.

La valorizzazione del territorio deve innanzitutto passare attraverso la valorizzazione delle risorse umane. Come, infatti, affermava il Ministro dell'Ambiente Altero Matteoli nel suo intervento di apertura alla Seconda Conferenza Nazionale delle Aree Naturali Protette: "...non dobbiamo immaginare un'area protetta dove si tiene in vita la produzione del formaggio o di una razza domestica solo per esibirla al turista, ma realizzare un contesto ambientale dove queste attività abbiano piena vitalità sociale ed economica".

Abitare all'interno di un'area-parco, inoltre, potrebbe essere, anche per chi vive in Val d'Aveto, un'occasione per sentirsi autonomi ed affrancati da un sistema di poteri nazionali, regionali e provinciali troppo spesso vissuto come lontano dalle proprie esigenze. Il territorio dell'area protetta, infatti, diverrebbe "speciale" e le popolazioni locali potrebbero effettivamente e concretamente concorrere alla creazione degli strumenti per la sua gestione senza più concepire l'idea di parco come il prodotto di un desiderio statalista e verticistico di tutela.

Un parco, infatti, deve essere una realtà desiderata dalla popolazione locale. Per il buon funzionamento di un'area protetta, quindi, è inevitabile ottenere non solo il consenso ma anche l'attiva collaborazione e il coinvolgimento di chi vi abita senza il quale ogni progetto è destinato a fallire. L'istituzione-parco ha, quindi, quanto mai bisogno di curare l'aspetto della comunicazione e dei rapporti con i cittadini poiché le sue strutture e i suoi modelli di sviluppo rappresentano un elemento di novità per le popolazioni locali che devono adeguatamente conoscerlo per potersi fidare di lui. Per coinvolgere produttivamente le comunità che vivono all'interno di un parco occorre creare un'efficace organizzazione che sappia accogliere le proposte della popolazione e, nel caso dell'Aveto particolarmente, sappia porla nella condizione di volersi esprimere superando quelle divisioni interne che spesso caratterizzano le piccole comunità rurali. Ma per ottenere questo difficile obiettivo occorre un incontro nella condivisione. Ciò rappresenta l'ineliminabile premessa a qualsiasi tentativo di dialogo costruttivo e consapevole senza il quale ogni iniziativa sfocia nell'insuccesso. Occorre, quindi, tenere in grande considerazione la fase di negoziazione che precede le scelte cercando di minimizzare, anziché acuire, i possibili conflitti fra codici culturali diversi: nel caso del Parco dell'Aveto, fra il modello culturale urbano e quello rurale.

La questione è piuttosto complessa. Tuttavia, per dare un'idea della diversità che caratterizza i due modelli, possiamo affermare che appartengono al modello culturale rurale avetano i seguenti tratti principali:

  • la tradizionale ritrosia del mondo contadino dell'entroterra e la sua tendenza alla chiusura e alla diffidenza nei confronti dell'estraneo (furestu);
  • un certo particolarismo;
  • la tendenza al tradizionalismo-conservatorismo: si cerca, infatti, di minimizzare il rischio, ci si fida dell'esperienza (e non dell'innovazione) e la terra è il bene primario, quello più prezioso perché fonte di vita e di sostentamento e, data la sua importanza e significato, diventa addirittura sacra;
  • la rassegnazione, presente nella popolazione, nei confronti della sua condizione di disagio e la sfiducia verso le istituzioni unita ad un certo disprezzo per i politici e per gli ambientalisti identificati con la città.

Secondo questo modello l'ambiente naturale deve essere utile, sfruttabile, e significa fatica, lavoro, dedizione.

Dall'altra parte abbiamo la cultura urbana. Come anche sostiene l'antropologo Dalla Bernardina a seconda del modello culturale si hanno concezioni diverse dell'ambiente naturale. Infatti secondo questo modello la natura (ed anche i parchi) viene vista sotto un ottica semplicemente ludico-ricreativa-estetica e, quindi, ben differente dalla concezione che ha dell'ambiente la cultura rurale.

Inoltre da questo modello (e qui faccio riferimento a certo rigido ambientalismo che non tiene in debito conto dell'importanza del nesso fondamentale natura-cultura) sono spesso partite ingiuste accuse di degrado ambientale verso le popolazioni locali che, invece, potrebbero essere le migliori custodi del territorio in cui vivono.

È, quindi, necessaria una reimpostazione delle modalità di approccio fra i diversi, ma non incompatibili, modelli culturali affinché un parco possa realmente tentare di contribuire alla risoluzione delle problematiche legate a territori montani come la Val d'Aveto. Solo attraverso un avvicinamento nel dialogo delle due realtà e il doveroso e imprescindibile coinvolgimento diretto nelle scelte di pianificazione ambientale della popolazione locale potrà avvenire la negoziazione di queste identità che ho definito, appunto, negoziabili. Ciò affinché il parco non sia più percepito come un vincolo e una vittoria della città sulla montagna ma come una reale occasione di miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni locali. In questa ottica sia il parco sia la popolazione locale sono chiamati a porsi, con disponibilità e senza pregiudizi, l'uno nei confronti dell'altra. Il primo, con maggiore rispetto e comprensione della cultura locale, deve ricercare necessariamente un "avvicinamento culturale" con i luoghi e con le persone che vivono il territorio. Un parco, infatti, non può e non deve essere una istituzione avulsa dalla realtà, sia fisica sia mentale, abitata dai residenti, non deve essere percepito come un qualcosa di estraneo ma di ben conosciuto e familiare. In questo senso, un ruolo fondamentale è giocato dal tipo di linguaggio utilizzato e dalla capacità di offrire una positiva immagine di sé e della propria utilità sul territorio.
Al momento, purtroppo, in Val d'Aveto, non si può constatare un consistente avvio di quel tanto indispensabile quanto imprescindibile coinvolgimento della popolazione locale. Per questo si rende quanto mai necessaria una radicale opera di cambiamento di prospettive e di punti di vista. Anche perché lo spopolamento e i processi di degrado della montagna procedono inesorabili rendendo sempre più impegnativo ogni progetto di recupero del paesaggio naturale e culturale.

 


 

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Pagina pubblicata il 31 gennaio 2007 (ultima modifica: 16.07.2007), letta 9585 volte
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