Valdaveto.net > Articoli e ricerche di carattere storico > Quando in Val d'Aveto... c'erano i banditi
"Questa è la lacrimevol historia / del bandito Nicolino Cella di Cabanne."
La gente delle pievi, che alla fiera di Santo Stefano si reca col vestito dei giorni di festa e qualche genovino nella borsa, alza il naso alla volta del canta-storie.
Qualcuno fa spallucce e gira al largo, ma qualche altro, incuriosito, si alza sulla punta dei piedi, per sbirciare, al di sopra della spalla di chi gli sta innanzi, un grande "manifesto" a colori vivaci, che riproduce scene di muli, mulattieri e banditi.
"Da Nervi, Recco e Rapallo ver Fontanabuona / ricchi mercanti portavan merci caricate a soma."
Adesso la storia si è fatta decisamente più interessante.
Questo Nicolino Cella, via via che procede il racconto, acquista i connotati di un vero Robin Hood, che porta via ai ricchi per dare ai poveri.
Ed anche messo alle strette, stirato ed allungato in camera di tortura, resiste sino all'ultimo, prima di confessare i nomi di complici e mandanti.
"Egli per non tradire G.B. Doria, di Santo Stefano patrone / è disposto a farsi ammazzar sotto confessione."
A questo punto, la gente s'entusiasma davvero, piovono gli applausi, piovono gli elogi e piove anche qualche genovino nel cappellaccio sformato, che il cantastorie ha deposto a terra.
Non so se le cose siano andate davvero così, certo è che Sandro Sbarbaro avrebbe meritato questo ed altri successi.
Perché se scartabellare vecchie pergamene nell'archivio di stato di Genova è roba da erudito, possedere invece il fiuto, grazie al quale dalle vecchie pergamene saltano fuori vicende come queste, è dote da autentico storico e da vero romanziere.
Un romanziere in grado di evocare, oltre che raccontare, ed uno storico che, partendo da un episodio isolato, sa illuminare un intero fenomeno sociale.
Come fu appunto il banditismo in Val d'Aveto, verso la fine del XVI secolo.
La storia semiseria del brigante Nicolino Cella di Cabanna, torturato e poi misteriosamente inghiottito nelle segrete del castello di Santo Stefano è infatti rivelatrice - come fa notare lo stesso Sbarbaro nel suo breve saggio su 'Banditi di Val d'Aveto e loro rapporti con la Serenissima Repubblica Genovese' - di un diffuso malessere sociale, in virtù del quale il banditismo ebbe modo di trasformarsi "in volano economico per quelle valli che attraverso la ricettazione e la vendita della refurtiva" trassero ulteriore impulso al proprio sviluppo.
Insomma, senza i banditi, che alleggerivano i mercanti di velluti ed oggetti di oreficeria, lungo i valichi dell'Appennino, le popolazioni locali mai sarebbero riuscite a migliorare la propria condizione.
Una condizione ancora molto simile a quella dei medioevali servi della gleba.
Peccato che in quest'opera di "promozione sociale" a qualcuno di questi banditi scappasse, ogni tanlo, un "homecidio" o lo "sforsamento', ovvero lo stupro di qualche donzella.
La Serenissima Repubblica allora sguinzagliava sulle tracce dei malfattori reparti scelti formati per lo più da archibugieri corsi.
Che assai spesso "pizzicavano" i fuorilegge.
Ed allora erano dolori, come ci racconta la "historia" che Sandro Sbarbaro, da buon cantastorie, ha trasformato anche in ballata.
Recensione al saggio 'Banditi di Val d'Aveto e loro rapporti con la Serenissima Repubblica Genovese' e alla 'Ballata su Nicolino Cella'.
Apparsa su 'il GOLFO' (rubrica 'Monti e Valli'), aprile 2000
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Pagina pubblicata il 10 agosto 2004, letta 5946 volte dal 23 gennaio 2006
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