Fatti curiosi

Microstorie tratte dalla tradizione popolare

di Sandro Sbarbaro

Il predicatore ubriaco

Si racconta che nei primi anni del XX secolo vivesse in Val d'Aveto una singolare figura d'uomo, un frate predicatore che i valligiani chiamavano u prè mattu a causa dei suoi strambi atteggiamenti.
Un giorno, mentre dal pulpito teneva la predica, all'improvviso vide roteare sotto di sè i propri parrocchiani. Allora rivolto agli astanti esclamò: "Se il bianco e il rosso non fanno pace... io di far la predica questo dì non son capace!"
La mescolanza della bevanda che rende, a volte, le lingue assai sciolte, quel giorno gli aveva giocato un brutto scherzo impedendogli di proseguire nella predica.
Noè un dì piantò la vigna, forse non credendo di generare tanta confusione.

 

Sant'Antonio e Tognu

Sbarbaro Antonio fu Andrea (detto Tognu), ritornato da Roma dove era emigrato in cerca di fortuna... riprese a fare il contadino a Villa Sbarbari.
In un giorno di pioggia, quando già nello stesso anno erano morte una mucca e due "manzette" , costretto ad abbattere un'altra mucca caduta in località Tistera (alle spalle del paese di Sbarbari)... si precipitò su tutte le furie verso la stalla.
Staccò da sopra la porta il bassorilievo in rame raffigurante Sant'Antonio, lo mise sotto la canà (il canale di scolo della gronda) e l'apostofrò: "Lavite in po' gh'oggi vistu che nu ti ghe veddi ciù!" , ossia "Lavati un pò gli occhi visto che non ci vedi piu!"
E rivolto alla nuora Clementina, timorata di Dio, che piagnucolando lo supplicava di levare da sotto l'acqua l'immagine del santo, ordinò: "Tascè... se nu ve ghe cacciu Vù ascì!"
Il buon Tognu era convinto che il santo protettore degli animali avesse bisogno di una bella lavata agli occhi per accorgersi di tutte le disgrazie che stavano accadendo nella stalla che avrebbe dovuto proteggere.

 


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Inviatecele all'indirizzo info@valdaveto.net e noi le pubblicheremo (citando, naturalmente, il vostro nome).

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Il prete Pellotto

"Bene! Eccone un altro... Ci toccherà aspettare prima di dir messa..."
Così diceva il prete Pellotto in una domenica mattina dei primi anni del novecento mentre i parrocchiani sfilavano in località Fericciosa (luogo delle felci) ciascuno con una pietra in spalla.
Il prete Pellotto (questo era il soprannome e così ci è giunto tramandato dai racconti orali) durante la predica della domenica antecedente aveva raccomandato ai parrocchiani di fare il proprio dovere portando ciascuno una pietra sul sagrato della chiesa: si stava provvedendo, infatti, al ripristino del piazzale della chiesa di San Giovanni Battista di Priosa d'Aveto.
Il prete Pellotto, originario di Val Trebbia (ma trasferitosi ad Ottone), era un tipo curioso e dalla battuta pronta.
Un giorno, rivolto ad un parrocchiano di Sbarbari che si era presentato ad un battesimo vestito da damerino, esclamò: "De mafia ne san, ma u Credu nu san!" , ossia "Sanno di mafia, ma il Credo non lo sanno!"
"Vestir da mafioso" era, nella terminologia avetana, il vestire con abiti costosi e di taglio sartorile.

 

'Crimea'

Diceva 'Crimea', ossia Alessandro Repetti di Calzagatta, ad alcuni giovinastri che lo volevan gabbare: "O che le vostre monete son false, o tanto bene da voi io non lo merito!"
Il soprannome lo doveva alla partecipazione alla famosa guerra di Crimea che Cavour intraprese nel 1856 a fianco degli alleati.
Altri avetani combatterono su quel fronte. Cella Gerolamo di Cabanne si distinse nel 3° Reggimento della Legione Anglo Italiana [nota: per approfondimenti su Cella Gerolamo si consiglia la lettura del documento Emigrazione e fogli di via].

 

Prove di destrezza nel primo 1900

Carletto Sbarbaro della famiglia dei 'Camè' (Camerieri) era conosciuto per la sua abilità nel lancio dei sassi.
Un dì, trovandosi in Rezzoaglio, fu sfidato dai valligiani a dar dimostrazione delle sue capacità.
La prova consisteva nel porsi sotto il campanile della chiesa e, facendo tre passi a lato, lanciar tre pietre sino a superarlo.
Carletto al primo lancio colpì la campana, al secondo la crocetta, e alfine al terzo lancio la pietra sorvolò il campanile.

 

Lavori d'altri tempi: "Pegà l'aia" (impiastricciare l'aia)

Consisteva nell'impermeabilizzare l'aia ove si sarebbe trebbiato il grano, in modo tale che neppure un chicco di grano potesse andare perduto.
Questo lavoro era svolto utilizzando lo sterco di vacca.

 Trebbiatura

Un po' di giorni prima della data fissata per la trebbiatura, i ragazzi facevano il giro delle stalle col vallu (vaglio) per procurare una certa quantità di bàzza fresca (sterco) che, diluita con acqua, era poi spalmata sull'aia con una scopa fatta di rami di castagno recanti le foglie, fino a tappare tutte le fessure.
Il letame, lasciato ad asciugare all'aria ed al sole, impermeabilizzava l'aia creando una patina simile a quella che si ottiene oggigiorno con le moderne tecniche di plastificazione.
(da Lino di Casaleggio)

 

'Tugnollu' Sbarbaro

Nel paese di Sbarbari da qualche tempo era uso frequentare la messa nell'oratorio d'Arena in Val Fontanabuona.
Certo 'Tugnollu' Sbarbaro della famiglia dei 'Caregà', una domenica mattina, voleva di certo dimostrare ai 'Fontanini' che anche gli 'Avetani' sapevano il fatto loro nel campo della liturgia cantata...
Con sommo rammarico degli astanti si lanciò in una sua interpretazione dell'Alleluia che atterrì le pie donne e i rudi contadini che quel dì risposero alla chiamata del Signore.
Gli ululati del provetto cantore, che ad un certo punto dimenticò anche le parole del testo, misero alla prova la fede degli 'Schelùn' che all'uscita da messa si rivolsero al malcapitato della 'Fossa' con queste frasi: " Ti pe' pregà che te o figgiu du Caregain, se nu ta pigliavi n'a bella Alleluia..." (Puoi pregare che sei il figlio del Calzolaino, se no la prendevi una bella Alleluia...). Le 'anime pie' volevano dare al cantore una bella lezione. Li aveva trattenuti solo il rispetto al padre di questi, conosciuto calzolaio.

 

Il vecchio acquedotto di Casaleggio

Il vecchio acquedotto di Casaleggio era stato costruito con un ingegnoso sistema riecheggiante antiche produzioni artigiane.
Una prima lastra d'ardesia dello spessore di 8-10 centimetri, scavata al suo interno per una profondità di 3-4 cm., era incastrata in quella successiva opportunamente lavorata con incavo maschio - femmina e via via per una lunghezza totale di circa 250 metri.
Sul bordo del canale ardesiaco così costituito vi era un muretto di circa 15 cm. ricoperto con altra ardesia. Il tutto era stato posto ad una profondità di 50-60 cm. sottoterra.
(notizia raccolta da Lino Losi di Casaleggio)

 

Le donne di Setterone (Parma) (da una conversazione con Armando Fugazzi di La Villa)

In Val d'Aveto si raccontava che, nel primo novecento, le donne dei paesi di Cetterun (Setterone) e Calice in Val di Taro, erano dedite all'accattonaggio.
Venivano a La Villa, presso Allegrezze, e nei paesi vicini per raccogliere le elemosine dei paesani avetani.
Ogni famiglia donava qualcosa in base alle proprie capacità e sostanze, secondo ciò che aveva appreso dal Vangelo: "Date e vi sarà dato!"
Le donne trattenevano la farina e le cose trasportabili o rivendibili, ma gettavano tutto il resto fra i "custi" (gli arbusti) che incontravano lungo la strada del ritorno.

 

Il calendario sballato (da una conversazione con Giulia Biggio di Cardenosa)

Carmelina Biggi di Sottoripa, raccontava che verso i primi del novecento un tale che abitava presso Casoni di Fontanigorda non possedendo un calendario (...cosa normale in quei tempi di miseria) ogni tanto si recava a Scabbiamara per sapere quale giorno del mese fosse.
Un dì, giunto presso le case del paesino avetano, si mise a chiamare a gran voce
"Oh Tugnin! Oh Tugnin!... che giurnu l'è?... semmu a carlevà?", ossia "Oh Antonio! Oh Antonio!... che giorno è?...siamo a carnevale?".
E Tugnin, che intanto si era affacciato alla finestra, di rimando:
"Che ti turni a ca'... e verghegnete!... Semmu au giurnu de Pasciun!", ovvero "Torna a casa... e vergognati!... oggi è il giorno della Passione!".

 

Cattun la figlia del cavaliere

Caterina Sbarbaro detta Cattun, classe 1863, un dì dovendosi recare per affari in un paese della Val d'Aveto, scendendo da Ca' degli Alessandri presso Codorso, dove abitava, giunse alfine al paese di Sbarbari ove un dì era nata.
Un paesano l'invitò a salire sul suo mulo per alleviare le fatiche del viaggio.
Con galanteria l'uomo voleva aiutarla a salire sulla bestia da soma.
Ma Cattun rifiutò sdegnata!
Salì sulla mascera (muretto a secco) e spiccò un balzo dicendo: "Sun a figgia de in cavaliere" (Sono la figlia di un cavaliere).
Ma avendo calcolato male la distanza, si trovò a volare oltre la bestia e a finire per le terre.
In effetti suo padre Agostino Sbarbaro, detto Bogianen per il suo intercalare i discorsi con questa tipica espressione piemontese, aveva prestato servizio nella cavalleria del re piemontese.
Si racconta che fosse davvero un gran cavaliere.
Un dì per domare un cavallo imbizzarrito lo indirizzò in un campo arato. La bestia, nel terreno smosso, presto si stancò e il Bogianen ricevette i complimenti del suo superiore.

 

Cattun e le false promesse

Un dì Caterina Sbarbaro detta Cattun, classe 1863, da Casa degli Alessandri dove era andata ad abitare dopo essersi sposata con Gio Batta Repetti (figlio di Agostino detto dindio), scese verso Montebruno, in Val Trebbia, per effettuare alcune compere.
Rimase colpita da un capannello di paesani che ascoltavano un politico il quale, presso il Santuario di Montebruno, stava arringando la folla.
Cattun soleva ripetere che il deputato stava dicendo: "Se mi voterete sarete pagati!"
Allora, colma di sdegno, Cattun salì sul palco, spostò di malagrazia il politico e disse rivolta ai valligiani: "Noi non vogliamo essere pagati! Vogliamo le cose giuste".
Dall'uditorio si levò un applauso al suo indirizzo e il politico si allontanò mogio...

 


 

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Pagina pubblicata il 20 dicembre 2004 (ultima modifica: 22.07.2006), letta 10360 volte dal 23 gennaio 2006
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