Valdaveto.net > Usi, costumi, tradizioni, racconti e leggende > Il Manzoni, gli umili e il campanile raddrizzato
A Parigi nel 1818, venne pubblicata l'importante "Histoire des Républiques Italiennes du Moyen Age", scritta dallo storico ed
economista ginevrino Simonde de Sismondi.
L'opera (peraltro tuttora edita) era inevitabilmente la sintesi dei pregi e dei difetti del suo autore. E sarà il lettore a stabilire se
il composto, ma feroce attacco alla chiesa cattolica italiana, inserito nel XVI volume,
sia da attribuire agli uni o a gli altri. Rimane il fatto storico che, sostenuta da uno studioso autorevole quale il Sismondi oggettivamente
era, la critica rivolta al clero, di essere stato la causa principale della decadenza politica e civile dell'Italia, non poteva non suscitare
robuste reazioni.
Una di queste ebbe per protagonista il confessore di Alessandro Manzoni, don Luigi Tosi, che convinse lo scrittore
milanese ad interrompere la stesura del Conte di Carmagnola, per dare una risposta adeguata al Sismondi.
Tra il 1818 e il 1819 nascono così le "Osservazioni sulla Morale Cattolica".
Nell'opera l'autore fa un grande e mirabile sforzo, per dimostrare che non
esiste incompatibilità tra il cristianesimo e l'illuminismo. Ma non afferma che la chiesa non è oscurantista a prescindere. Afferma semplicemente che volendolo, non è costretta ad esserlo, senza essere per questo meno evangelica.
Ma nell'opera, a torto considerata minore, trovano spazio i prodromi di un convincimento manzoniano destinato a condizionare il panorama letterario a partire dal XIX secolo: le narrazioni, specialmente quelle storiografiche, intrise di "attioni gloriose" e di "imprese de Prencipi e Potentati" avevano ormai esaurito la loro ragion d'essere. E dovevano essere superate sia da un punto di vista linguistico che strutturale.
Scriverà infatti il Manzoni, nell'introduzione delle Osservazioni:
Accade troppo spesso di leggere, presso i più lodati storici, descrizioni di lunghi periodi di tempi, e successioni di fatti vari e importanti, senza trovarci quasi altro che la mutazione che questi produssero negl'interessi e nella miserabile politica di pochi uomini: le nazioni eran quasi escluse dalla storia.
L'inizio di una svolta epocale, che lo porterà ad eleggere protagonisti del suo romanzo capolavoro, gli umili, i semplici, i figli del popolo.
E con essi viene rivalutato il lavoro, ritenuto dall'autore ben più importante nel perseguimento del progresso sociale degli intrighi di palazzo, della falsa cultura e del malgoverno.
Ma "I Promessi Sposi" dovevano fotografare un secolo, il seicento, inviso all'autore e allora osservando le bozze del suo nascente romanzo scriveva all'amico Fauriel:
I materiali sono ricchi: tutto ciò che può far fare agli uomini una triste figura c'è in abbondanza, la sicurezza nell'ignoranza, la presunzione nella stupidità, la sfrontatezza nella corruzione, sono ahimè i caratteri più salienti di quell'epoca, fra molti altri dello stesso genere. Per fortuna ci sono pure degli individui e dei tratti che onorano la specie umana...
Ma la rivoluzionaria idea di far rappresentare la parte migliore della società dal popolo, non poteva essere accolta dal mondo accademico e letterario più conservatore senza una massiccia dose di diffidenza, qualche disappunto e finanche scandalizzate critiche.
Il librettista genovese Felice Romani, per esempio, su un giornale milanese, dopo aver osservato come i protagonisti del romanzo fossero "due poveri lavoratori" si domandava sconcertato: "sono essi gli eroi da collegare degnamente ad una epoca storica, qualunque essa sia?"
E il critico Paride Zajotti rincarava la dose: "chiameremo noi storia la miserabile conoscenza d'un oscuro villaggio... le vecchie leggende che mai uscirono di mano alla plebe?"
Ed anche Niccolò Tommaseo con la franchezza che gli era congeniale, esternò i suoi dubbi: "un montanaro può certamente essere un uomo rispettabile come un re: ma non so se merita d'essere il soggetto d'un romanzo, non foss'altro per la ragione che i montanari in Italia non si dilettano a legger romanzi".
Dovranno passare molti anni, per ritrovare sulla rivista "Il Crepuscolo" fondata e diretta da Carlo Tenca, l'affermazione di un principio e di una verità oggettiva: "da noi lo studio del popolo e della sua vita incominciò colla scuola manzoniana".
E quasi a voler confermare che quando le idee sono forti ed originali, quasi sicuramente trovano espressione estetica, anche nella pittura realista della metà dell'ottocento, il rivoluzionario tema manzoniano diventò pregnante. Valgano come esempi paradigmatici dell'evoluzione tematica delle arti figurative, "Il vagone di terza classe" del francese Daumier e il successivo "Il quarto stato" dell'italiano Giuseppe Pelizza da Volpedo.
Anche la settima arte, perlomeno nella sua espressione neorealista, non poteva sottrarsi dal rappresentare gli "ultimi", che trovano sostentamento e talvolta riscatto nella dignità delloro lavoro.
Il film "L'albero degli zoccoli" di Ermanno Olmi per esempio, descrive la vita di una cascina nella pianura bergamasca alla fine del XIX secolo, utilizzando come attori contadini e gente comune. Con risultati straordinari e di grande impatto emotivo.
Eppure nonostante tutto questo, la storia dei libri di testo è sempre quella "de Prencipi e Potentati" che tanto piaceva agli avversari del Manzoni.
E che per volterriana definizione, appare come un quadro di delitti e sventure.
Ma fortunatamente, nella ristretta cerchia dei cultori di storia locale, l'aspetto etno-antropologico di un territorio rimane l'elemento fondante di un percorso di studio e di ricerca. Ed è in questo ambito che la "gente meccanica e di piccolo affare" pur travolta dagli eventi storici, nel contempo è resa viva dalla partecipazione involontaria ai medesimi ed in particolare da quelli che la tolgono dalla condizione di anonimia.
E nell'aneddoto storico che mi appresto a raccontare, a conforto dei pochissimi lettori che mi avranno seguito sin qui, ad uscire meritatamente dall'anonimato, saranno due artigiani cui non difettavano certamente il coraggio e la capacità professionale.
Ma per rendere esaustivo il racconto è necessaria una piccola premessa.
Il complesso architettonico santostefanese, adibito al culto religioso, venne edificato in ottima
posizione geografica, ma che purtroppo successivamente, si rivelò inadatta dal punto di vista geologico.
La vecchia chiesa, pericolante a causa del movimento franoso venne infatti demolita nel 1927 e sostituita da quella attuale nel 1928.
Il campanile settecentesco invece è ancora esistente, ma dovette subire ben due raddrizzamenti.
Uno di questi e probabilmente il maggiore, vide come protagonisti un muratore ed un falegname, coadiuvati da tutta la popolazione.
Pur non essendoci note biografiche che li riguardino, i loro cognomi Lanata e Mangiante, fanno propendere decisamente per una
provenienza chiavarese.
La descrizione del fatto è tratta da "Alcuni cenni della Provincia di Chiavari pubblicati in occasione del Congresso Agrario 1853",
tipografia di Angelo Argiroffo, Chiavari.
Raddrizzandosi
con comune esultanza
Il campanile
della antichissima
parrocchiale, arcipresbiterale
chiesa plebana
del borgo di Santo
Stefano d'Aveto
enormemente inclinato per la frana
Non deesi omettere di ricordare quanto fu fatto da Giacomo Lanata muratore ed Angelo Mangiante falegname, i quali nel 1847 raddrizzarono un campanile che minacciava rovina. Questo campanile che contava non meno di cento anni, dell'altezza di trenta metri, della quadratura di sei e dello spessore al piede dei muri di metri 1,25, inclinava all'occaso per ben tre metri e venti centimetri, per guisa che da un'istante all'altro se ne predicea la vicina caduta.
Essi assunsero di raddrizzarlo, ed assicuratolo al davanti con ben intese puntellature strette al piede con travi collegantisi posati sopra i conii piani, segandone l'adeguata porzione dalla parte orientale a poco a poco in meno di dieci giorni il riducevano alla sua perpendicolare, compiendo con tenuissima spesa, senza soccorso di macchine, quanto altrove o si sarebbe giudicato impossibile, o per ciò si sarebbe suonate le cento trombe della fama, quando anche fosse stato compiuto col soccorso di tutti quelli ordigni, che l'umano ingenio seppe trovare.
Molta parte di questo debbesi attribuire a che i nostri artefici frequentano le scuole di architettura e d'ornato mantenute a spese della Società Economica (di Chiavari).
All'epoca dei fatti sin qui narrati, era presente nel borgo avetano, quell'avvocato Antonio Domenico Rossi
che tanta parte aveva avuto nella diffusione del culto della Madonna di Guadalupe a S. Stefano.
L'illustre santostefanese espresse entusiasticamente la propria soddisfazione per il raddrizzamento della torre campanaria, con questa lettera:
Egregi Abitanti della Borgata
Le dure fatiche, gli sforzi estremi e la lunganime pazienza cui doveste sottostare in trasportare elementi pel raddrizzamento del campanile di nostra Matrice non furono soltanto lodati dai vicini; ma dalla intera Provincia e dagli estranei esaltati a cielo.
Non ultimo tra Voi, mi congratulo per la pertinace volontà che adoperastè, spontanei, nella difficile intrapresa e laboriosa; non chè
coll'esimio Maestro che la ideava, e la eseguiva tanto plausibilmente.
Questa prova di zelo, che deste per l'onore della patria nostra mi esalta in tutta l'anima! E, mi è garante
bastevole, che spinti da vero spirito religioso, e non da superficiale vana gloria, pel bene della nostra Chiesa (chiunque spingavi a farlo)
vi mostrerete sempre affezionati all'incremento e lustro della medesima.
Ho voluto, nel mio ozio campestre, che godo tra voi, dettare
alcuni versi
intorno all'opera che compieste: abbiateveli in segno della mia più sincera ammirazione ed affetto.
10 ottobre 1847
Antonio Domenico Avv. Rossi
Seguiva un breve componimento poetico che in quanto ad enfasi e retorica, non aveva nulla da invidiare al famigerato sonetto "Sudate o fochi a preparar metalli" di Claudio Achillini, ma quello che è più interessante notare, è che nella lettera l'avvocato Rossi esalta lo spirito di sacrificio degli abitanti di Santo Stefano e liquida con un breve accenno "all'esimio Maestro", l'opera dei due benemeriti foresti. Mentre nel resoconto chiavarese, si pone in evidenza soltanto l'operato dei due allievi della Società Economica e si passa disinvoltamente sotto silenzio il verosimile contributo della popolazione locale.
A distanza di molti anni possiamo forse sorridere del radicato campanilismo di quei tempi, ma grande deve rimanere l'ammirazione per l'opera compiuta.
Anche perchè se si dovesse raddrizzare il campanile oggi, non credo si riuscirebbe a farlo in meno di dieci giorni, ma soprattutto con "tenuissima spesa".
Verrebbe voglia d'osservare manzonianamente, che davvero, non tutto quello che vien dopo è progresso.
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Pagina pubblicata il 9 giugno 2008, letta 5647 volte
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