Lupi in Val d'Aveto

di Sandro Sbarbaro
tratto dal volume Racconti del lupo

Era l'anno 1999 e, trovandomi in Comune a Santo Stefano d'Aveto ove cercavo documenti antichi riguardanti le parentele della parrocchia di Priosa d'Aveto, notai due persone intente a denunciare la presenza d'un lupo che aveva attaccato le mànze.
In quel periodo nella valle circolavano altri episodi simili, avvistamenti di lupi raccontati da contadini le cui mandrie pascolavano nella zona fra il Monte Bue e il Monte Maggiorasca.
Il fatto mi eccitò.
Presso zii e parenti avevo già ascoltato leggende riguardanti la presenza dei lupi in Val d'Aveto.
I contadini, come è noto, tramandano di padre in figlio accadimenti risalenti a centinaia d'anni prima... sino a quando il tutto si trasforma in leggenda.

Risulta quindi assai difficile, per uno storico, datare il periodo in cui si svolse la scena rappresentata, diremmo re-interpretata, dall'attuale depositario della leggenda.

A qualche anno di distanza stavo percorrendo, con l'amico Gian Franco Badaracco, l'antica strada di crinale posta tra Aveto e Trebbia che un tempo, si narra, congiungeva Genova a Piacenza.
Giunti nel punto dove, aggirando il Monte Posasso, la strada si dirige verso la cappelletta di Cardenosa, Gian Franco m'indicò alcune orme nella neve affermando che appartenessero ai lupi.
Forse per tranquillizzarmi m'assicurò che erano già passati da parecchie ore.
Non avevo motivo di dubitare.

Orme di lupo presso il Monte Posasso

Andando spesso a camminare nei mesi invernali lungo i sentieri posti nelle foreste che si trovano nel circondario di Parigi, Gian Franco si era creato una certa esperienza in fatto di lupi.
Era un pomeriggio stupendo col sole che, tramontando, indorava i monti ed il mare giù verso Genova.

Sterminati da operazioni di vera e propria caccia (verso la metà del XIX secolo lo Stato Sabaudo aveva messo una taglia sulle loro teste), i lupi, la maledizione dei contadini, dopo centinaia d'anni erano ritornati a calpestare il suolo d'Aveto.
La loro passata presenza in Aveto è testimoniata da alcuni toponimi (u bòscu du Lù) e soprattutto dalle leggende tramandate di generazione in generazione che, ancor oggi, può succedere d'ascoltare.
Ne racconterò alcune che circolavano presso le famiglie di villa Sbarbari e dei paesi limitrofi.

Italo Sbarbaro (classe 1917, della famiglia degli Stécche, mio zio) mi raccontò questi episodi che, sebbene realmente accaduti, riporterò come leggende... con l'aggiunta di qualche dato storico.

 

A càgna du Sciarbellìn

Sbarbaro Gio Maria fu Giovanni, nato in ti Sbàrburi (a Sbarbari) nel 1807, detto Sciarbellin, contadino, aveva una cagna che faceva la guardia alle pecore.
La cagna era così ben addestrata che a mezzogiorno percorreva i due chilometri che separano u Pùzzu da Cirèscia (il Pozzo della Ciliegia, la località dove pasturavano gli ovini) dal paese di Sbarbari, andava a mangiare a casa per poi ritornare alla sua incombenza.
Un dì, al ritorno, trovò il lupo che stava scannando le ultime pecore del branco.
Subito ingaggiò una furibonda lotta con l'animale ed alla fine, avuto il sopravvento, seppellì il cadavere del lupo sotto la catasta delle pecore uccise restando nei pressi.
Il padrone, accortosi che le bestie non ritornavano, imbracciò il fucile e si diresse verso il luogo dove sapeva che gli ovini stavano pascolando.
Viste le pecore scannate, credendo che in un momento di pazzia la cagna le avesse ammazzate, fu preso dall'ira e la uccise.
Grande fu il dolore dello Sciarbellìn quando, rimosse le pecore, si accorse che sotto il mucchio era seppellito il lupo autore della strage.

Questo tratto caratteriale del cane, secondo l'amico Guido Ferretti di Casoni di Vallescura, ora di Fontanigorda, si riscontra anche in alcuni cani da caccia.
Il cane tende a nascondere l'animale cacciato perché, qual preda, gli appartiene.

 

Le due mule del mulattiere

Un mulattiere di Ca' di Stécche (abitazione della famiglia denominata col soprannome Stécche) aveva due mule: una pàscia (ossia di buon carattere) e l'altra brüsca (sempre disposta a tirar calci).
Un dì, dopo una giornata di lavoro, le due mule si trovavano all'érba (ossia in libertà) in un luogo ove potevano brucare e dormire all'aperto sino all'indomani quando sarebbe giunto il mulattiere.
Venne il lupo.
La pàscia si diede alla fuga.
La brüsca, invece, volle dimostrare al lupo che lei non temeva nessuno.

Iniziò una danza girando in tondo e tirando pàtte de càsci (ossia una gragnuola di calci) al lupo che la pressava dappresso.
Alla fine, sfinita dallo sforzo, ebbe un attimo di smarrimento.
Il lupo le saltò alla gola e la sbranò.

 

Il pastorello e il lupo

A u Ciàn da Sternà (Piano della Strinata), località presso la Ciàn-a da Carbuscià (Piana della Ca' Bruciata, vicina al passo della Scoglina), v'era un pastorello che era a pastù con le mucche.

(Presso la Piana della Ca' Bruciata il fossato d'Acquapendente incontra il rio dei Colleretti formando il fiume Aveto; in questa zona si trovava l'antico confine fra la Podesteria di Neirone e Roccatagliata, il Capitaneato di Rapallo ed il marchesato di Santo Stefano d'Aveto)

Per distrarsi ogni tanto batteva il suo bastone sullo zérbiu, la terra erbosa della prateria.
Venne il lupo.
Una vacca rossa si staccò dalle altre, che stavano brucando, caricandolo a testa bassa.
Il lupo si dette alla fuga.
La vacca lo seguì fino a farlo accampà nella località Càmpu da Seìgre (Campo della Segale, in faccia alla Piana della Ca' Bruciata).

 

U cagnìn du Cavàllu

Sbarbaro Gio Batta fu Antonio, nato a villa Sbarbari nel 1824, detto Cavàllu, contadino, aveva un piccolo cagnolino bianco che, con la curiosità tipica delle giovani bestiole, un dì si aggirava fra i rifiuti del letamaio presso la casa del Cavàllu.
Giunse il lupo.
Il cagnolino, in fuga, non fece in tempo a gettarsi nel buco del rattaiö (il foro praticato sull'uscio attraverso il quale il gatto di casa può liberamente uscire e rientrare).
Trovarono il mén-u (il collare) oltre l'Aveto, in località L'Ìsuru Quàggiu (L'Isola bassa), ad un tiro di schioppo dal paese di villa Sbarbari.

 

La furbizia del lupo

Nella stalla sottostante l'abitazione appartenuta a Sbarbaro Gio Batta fu Antonio (nato a Villa Sbarbari nel 1836, detto Bacciòllu, contadino, padre di Cirìllu) erano rinchiuse le pecore.
Era notte.
Venne il lupo.
Con le zampe fece saltare il bastone di legno che, tramite procedimento di torsione di uno spago che lo assicurava allaporta, costituiva il chiavistello... ed entrò.
Iniziòa scannare le pecore.
Dato il trambusto, i contadini si svegliarono...
Scesero...
Fecero il giro della casa e rinchiusero il lupo nella stalla, ritorcendo lo spago e assicurando il bastone di traverso...
Poi schiodarono un asse dal tavolato del solaio per poter sparare al lupo.
La bestia, sentendosi in trappola, recise il nodo che assicurava lo spago del chiavistello all'interno della porta e fuggì.

(episodio raccolto dagli zii Alfredo e Irma Sbarbaro, della famiglia dei Maxìn-e, classe 1925 e 1922)

 

U can du bàrba Lazzarìn

I vecchi del paese di villa Sbarbari (parrocchia di Priosa d'Aveto) raccontavano di un bimbetto che un dì scambiò un lupo, giunto per la fame presso le ultime case del paese, con u can du bàrba Lazzarìn, ossia con il cane dello zio Lazzarino.
Felice gli si avvicinò per accarezzarlo ed il lupo se lo sbranò.

Rammentiamo che gli ultimi Sbarbaro residenti a villa Sbarbari a nome Lazzaro, furono due cugini: Lazzaro fu Giuliano, nato nel 1714 circa, e Lazzaro fu Bernardo, nato nel 1713 circa.

(episodio raccolto da mia madre Armanda Repetti fu Giovanni, detto Giuanìn da Catùn, nata nel 1927)

 

Il vecchio e il lupo

I vecchi di Ca' degli Alessandri (già Ca' de là de Cordùsu, ossia le Case al di là di Codorso) raccontavano che tal Lusciandrìn Repetti (probabilmente Alessandro Repetto fu Simone nato intorno al 1785) ormai vecchio e quasi cieco, un giorno si recò in località la Surìa, cinquanta metri fuori dal paese.
Incontrò il lupo e, data l'avanzata cecità, lo scambiò per una lepre.
Si racconta che pronunciò le parole: "Oh! Che bélla Légore. Oh! Che bélla Légore", inseguendolo tosto.
Per sua fortuna il lupo, forse infastidito da tutte quelle esclamazioni, s'allontanò.

(episodio raccolto a villa Salto, Parrocchia di Priosa, da un abitante del luogo al quale, data l'inesperienza, non chiesi il nome per poterlo poi citare; era della famiglia dei Ferretti di Salto)

 

Le donne della Scaglionata

Si racconta che, per allontanare i lupi che gironzolavano nei pressi delle loro case, le donne della Scaglionata usavano battere insieme e zöcchere (gli zoccoli) per allontanarli.
Il rumore provocato li disturbava al punto che si dileguavano.
Il paesino è ora cumulo di rovine.
Era ancor abitato sino alla seconda metà dell'ottocento dalla famiglia di Badaracco Antonio fu Andrea, nato a Scagiunà nel 1808, contadino.
Il nucleo abitativo era posto poco oltre il paese del Salto sull'antica strada che portava al Lago della Nave (e quindi al valico di Rocca di Gallo) o al passo del Laghicciolo (sul crinale fra Aveto e Trebbia, presso l'attuale valico di Fregarolo).

Il procedimento di battere gli zoccoli era usato anche dalle donne di Ventarola a pastù in Ramaxèiu: così rammentava la nonna di Sandra Cuneo di Isoletta.

(episodi raccolti da Biggi Guglielmino fu Stefano, detto Mino, di Sottoripa, classe 1934)

 

La donna col fucile

I vecchi di Cardenosa, paese della Parrocchia di Priosa d'Aveto, affermavano che a Bruzùn di Pùzzi (forse tal Agostina Biggio, della casata dei Curtellùn di Cardenosa, che abitava la casa solitaria in località Pozzi sita appena sotto lo spartiacque fra Trebbia e Aveto nei pressi del Monte Collere) andava a messa nella chiesa di San Gio Batta di Priosa portandosi lo schioppo sulle spalle.
La donna, infatti, aveva paura di incontrare il lupo durante il lungo e solitario cammino in mezzo ai boschi.

 

L'astuzia del viandante

Il Moréttu (nonno di Biggi Bruna di Sottoripa, classe 1923, abitante in Lunghélla presso il rivo omonimo sito poco sotto lo spartiacque fra Aveto e Trebbia e poco distante da Sottoripa, paese sul versante trebbiasco) raccontava che un suo parente si recò un giorno a Torriglia a prendere la carne necessaria per fare un brodo da somministrare ad un ammalato.
Sulla strada del ritorno, in località Lùnga, incontrò il lupo.
Era notte.
Per tenere lontana la bestia, man mano che procedeva accendeva alcuni fiammiferi.
Finita la scorta, si sentì perduto.
Ricorse allora ad uno stratagemma.
Tagliò piccoli pezzi dal mezzo chilogrammo di carne che aveva comprato, così, pian piano, procedette verso casa, dove alfine giunse in salvo.

(episodio raccolto da Stefano Biggio fu Antonio, detto Stéa, di Cardenosa, famiglia Brandulìn, classe 1912)

 

U can d' Austìn Grànde

Si racconta che Agostino Biggio (fu Agostino, nato a Cardenùsa nel 1843 e detto Austìn Grànde) un dì fosse con le pecore in località Giazétti (presso il Monte Collere, sullo spartiacque tra Aveto e Trebbia) ed avesse con sé un cane da guardia al quale teneva particolarmente.
Allontanatosi... dopo qualche tempo Agostino ritornò sul luogo della pastura e qui trovò quattro o cinque pecore scannate.
Preso dall'ira ammazzò il cane.
Spostate le pecore vide che sotto il cumulo stava la carcassa del lupo.

 

I lupi in Val d'Aveto sono tornati, si dice, portati nottetempo dagli ambientalisti.
E' plausibile, invece, che si siano trasferiti dalla Toscana attraverso il crinale che dalla Lunigiana giunge sino ai monti dell'Aveto percorrendo l'antica pista che collega Luni a Tortona.
Questo è il percorso migliore per giungere in terra d'Aveto in breve tempo, senza incontrare sorprese, tenendosi lontani dai centri abitati e dalle insidie degli uomini.

 


 

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Pagina pubblicata il 16 novembre 2005, letta 10753 volte dal 23 gennaio 2006
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