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A camera di ciappłn - La stanza lastricata

di Sandro Sbarbaro
tratto dal volume Racconti d'inverno
disegno di Giovanni Ferrero

Erano i giorni prima del Natale.

I fratellini si erano appena svegliati, richiamati dalla voce della nonna, che in cucina preparava la colazione a base di latte appena munto. Si erano vestiti in fretta. La stanza dei "ciappłn", una delle due riservate agli ospiti, era sempre immersa nell'umiditą e nel gelo, visto che solo in parte era pavimentata con assi di castagno, l'altra metą era appunto rivestita di "ciąppe d'ąrvegu" (lastre di pietra grezza), rese lisce dalla frequentazione. Tale tipologia costruttiva dipendeva dalla presenza, nella parte sottostante ai "ciappłn", di un "caničlu", ovvero un "canivello", o dispensa, ove i vicini di casa tenevano a stagionare le forme di formaggio locale.


Un tempo, la casa accanto apparteneva a Gian Maria Sbarbaro detto Trexģn della famiglia dei Careghč, fratello di quell'Andrea, detto Dričtta, avo dei fratellini morto a Roma nell'Ottocento.

Ora apparteneva ad Agostino Sbarbaro, detto Tassģn, della famiglia degli Stčcche, conosciuto in parrocchia e sulle fiere di bestiame come commerciante.

Quel ramo dei Careghč, aveva assunto da tempo un altro soprannome. Ora erano i Maxģn-a. Dal nome di Tommasina Biggio vedova del Dričtta, che aveva allevato il figlio Antonio, detto Tņgnu, non senza sacrifici. La sorella della Maxģn-a, la Sabčtta, ovvero Elisabetta, aveva sposato il Gio Maria, detto Trexģn, fratello del Dričtta.

Ecco perchč la casa accanto, divisa probabilmente in origine tra i due fratelli solo con un "paią", ovvero una tramezza di tavole, aveva il "canivello" che s'inseriva come un gioco d'incastri, sotto la camera detta dei "ciappłn". Nella camera, un letto di legno



La camera detta "di ciappłn" (disegno di Gianni Ferrero)

lavorato dai pomi torniti, rammentava la passata agiatezza della casa, quando il bisnonno Tņgnu, era a Roma col nonno Drģa, e commerciava in carbone, poi le cose non andarono per il verso giusto.

Il Drģa, gią in lą con gli anni, faceva il mestiere di "leitą". Raccoglieva il latte, girando le frazioni della Parrocchia di Priosa d'Aveto, e lo portava a Parazzuolo, centro di raccolta.

Si portava appresso la figlia Adele che poi lo avrebbe sostituito nel mestiere.

La quantitą di latte raccolto presso le varie famiglie, dopo la misurazione, era trascritta su un libretto. Ciņ sarebbe valso qual documento per la riscossione del denaro, da parte delle stesse.

Sopra il letto v'era una riproduzione di una Madonna fra uno stuolo d'angioli. Le candele votive pendevano nei pressi dei pomi. Su una cassapanca v'era un orologio dorato incastonato in una rappresentazione di gusto barocco dalla quale emergeva un giovincello che suonava uno zufolo, il tutto coperto da una campana di vetro, cosa strana a vedersi in quelle plaghe.

Era, probabilmente il frutto di qualche ereditą toccata a nonna Clementina. La Clementina detta Crčmme dal nonno, ma conosciuta presso i parrocchiani come Crementģn-a, faceva, oltre i consueti lavori delle donne dell'Appennino: madre, lavandaia, addetta al lavoro nei campi, pastore, ecc, anche i mestieri di levatrice e "strapuntča", ossia acconciatrice di materassi.

A quei tempi, le famiglie dei contadini benestanti acconciavano il materasso con la lana delle pecore, quelle meno abbienti avevano "strapłnte" di crine, o riempite con altri palliativi.

I fratellini scesi dabbasso avevano salutato lo zio che faceva la spola con la stalla, poi avevano mangiato avidamente il caffelatte, nel quale avevano "pucciąu", ossia immerso, il pane di casa, fatto dalla nonna, col forno della cucina economica, dalla grande piastra radiante.

Presso la canna fumaria erano appesi ad asciugare, sopra stendini, alcuni pezzi di biancheria e delle salviette. Veli di vapore volteggiavano nell'aria.

Durante la notte era scesa una piccola spolverata di neve, che aveva ravvivato il manto di quella depositata in precedenza che tendeva ad assumere un colore vitreo.

I fratelli calzando gli scarponcini, ordinati al Baffģn, artigiano di Favale di Malvaro, si diressero vociando verso la stalla a salutare le mucche e le giovenche.

Lo zio Frčdo, o Alfredo, stava spazzando la stalla.

La "bązza", o letame, era spazzata via da sotto le mucche. Nell'occasione le bestie erano fatte "piggią in pč", ossia fatte alzare dal battuto sul quale erano state sistemate a mo' di letto delle felci.

Le "firčccie", o felci, stipate in un angolo della stalla di sotto erano portate a quella di sopra alla bisogna.

"U ruu", ossia il letame, era spazzato nella canaletta posta sul fondo del battuto ove finiva anche l'orina delle vacche.

Si raccoglieva il tutto con una pala, indi, caricatolo sulla carretta di legno dalla ruota di ferro, si portava nel letamaio che ogni famiglia aveva in un appezzamento di terreno poco distante dalle case del paese.

A contatto con l'aria gelida, il letame emetteva vapori e l'olezzo si spandeva intorno, ma allora era normale. La puzza di letame era "l'acqua di colonia" che emanava dai corpi dei contadini.

Salutato lo zio, i fratelli si diressero sotto la "ōta". Sotto la "ōta", o volta, residuo di un passato mercantile, si radunavano, dopo aver spazzato le stalle, gli uomini del paese per ripararsi dall'intemperie o per fare due discorsi.

I ragazzini, non trovandovi alcuno, si diressero sull'aia ove sapevano che avrebbero trovato gli altri "battaggģn", ossia i ragazzi del paese, e dove si organizzavano battaglie a palle di neve.

Nel tragitto furono bersagliati da palle ben pressate, tirate a tradimento da alcuni che si erano "buttati" nei prati presso le case, nascondendosi dietro le sagome dei salici contorte dal gelo.

La battaglia si sviluppņ per qualche tempo. Poi qualcuno propose di andare a far le "schigčle", ossia andar a scivolare sul ghiaccio del fiume. La torma dei ragazzi si diresse verso il nuovo obiettivo. Risalita la "mascčra", ossia il muretto a secco che cinge le strade comunali o quelle di una certa importanza, i pił grandi finirono sul prato innevato. Da lģ bersagliarono ancora i pił piccoli.

Questi ultimi in quel camminamento, posto pił in basso rispetto al livello dei campi, avevano poche opportunitą di rispondere al tiro.

La brigata, giunta alfine al fiume, valutava la consistenza della lastra di ghiaccio e poi ognuno prendeva la rincorsa e si lasciava scivolare sull'improvvisato "Palazzo del ghiaccio dei poveri". Ogni tanto i meno esperti finivano a gambe all'aria. Le mani, gią provate dalla battaglia con le palle di neve, a contatto con la fredda superficie, toccata nell'atto di raddrizzarsi, diventavano all'improvviso paonazze. Bisognava sfregarle pił e pił volte perchč tornassero di un colore accettabile. A volte prendevano i geloni, e si doveva abbandonare il gioco, altre volte s'incrinava la lastra di ghiaccio e si doveva sospendere il tutto alla ricerca di un altro punto.

Ecco... il vociare dei ragazzi si era all'improvviso zittito. Alcuni erano stati affascinati dal motteggiare di un signore che giungeva dalla strada della "Crosa du Mņro", presso Calzagatta.

I bimbi, in breve, erano rivolti al nuovo interlocutore. Poi risuonņ una voce "u l'č u Pippņttu". Era costui Giuseppe Biggio di Priosa, maestro nell'arte degli insaccati.

I ragazzi presi da una nuova eccitazione, si erano come dimenticati del loro gioco.

Qualcuno gią si avviava su verso la strada delle "mascčre", che rasentava il "Ma'granģu".

Giunti presso il macello si erano fermati a qualche distanza, tenuti a bada dalle urla dei paesani, che li invitavano a stare lontani, perchč era pericoloso.
I fratellini avevano intravisto il papą nel crocchio degli uomini, che nelle occasioni speciali diventano oltremodo solidali. Dopo qualche tempo, l'attesa era diventata palpabile...

Ecco sopraggiungere, dalle stalle del centro del paese, il porco.

Era tirato per una corda da un tizio, mentre altri due o tre lo incalzavano dappresso. Uno, con una bacchetta in mano, ogni tanto menava scudisciate per convincerlo a proseguire verso il patibolo.

Il maiale grugniva, infastidito da tutti quei comprimari.

Giunto presso il luogo dell'esecuzione, preso come da un presentimento, iniziņ a grugnire con pił convinzione innalzando il suo canto alla morte.

Disperatamente cercava ora di sfuggire ai carnefici. Tallonato dappresso, benché avesse centuplicato le forze, nel tentativo di opporsi al suo destino, era costretto inesorabilmente ad avanzare.

Ben presto il grugnito divenne un urlo.

Il maiale aveva quasi raggiunto il tavolaccio sul quale sarebbe stato sgozzato.

Gli uomini della villa continuavano ad imprecare contro i bambini che si avvicinavano troppo alla scena.

Intanto, gli addetti al macello andavano innanzi ed indietro con "ramąie" colme d'acqua calda.

Le urla del maiale sgozzato rammentavano qualcosa di terribile.

Da lģ a qualche giorno si sarebbero mangiati i "berņdi", i sanguinacci screziati di latte e pinoli, e le "sarazģzze", le salcicce drogate con spezie e pepe, come prodotto e compendio di un magico rito.

 


 

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Pagina pubblicata il 23 ottobre 2005 (ultima modifica: 05.07.2014), letta 9427 volte dal 23 gennaio 2006
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