Celle

di Sandro Sbarbaro

Nella cella l'atmosfera era cupa.
A parte la posizione in cui si era costretti, sdraiati su delle reti in alluminio che segnavano il corpo, c'era una temperatura artica.
Le pareti gocciolavano brina che cristallizzandosi formava una crosta da calotta polare.
Rispetto ad altre celle, c'era l'assoluta mancanza di luce.
Ogni tanto la porta s'apriva per far entrare nuovi malcapitati, che erano gettati negligentemente sulle grate rimaste vuote. Una luce intensa, allora, illuminava la cella cosicché non si riusciva a scorgere ciò che c'era fuori.
La vista a causa dell'oscurità totale s'era indebolita, probabilmente la maledetta lampada doveva essere regolata sul congegno d'apertura della porta. Entrava in funzione all'istante esatto dell'apertura per spegnersi alla chiusura, creando il fenomeno di 'cecità oltre la porta'.
I prigionieri attendevano con speranza e terrore, al contempo, l'apertura della porta maledetta.
Con speranza perché, nel caso di nuovi venuti, l'apertura della cella faceva scendere considerevolmente il gradiente di gelo che la invadeva. Tanto più se i carcerieri si attardavano, in caso d'affollamento della cella, a trovare una sistemazione ai nuovi entrati. Alle volte i prigionieri si dovevano accatastare gli uni agli altri creando situazioni sgradevoli per via della sovrapposizione degli odori personali. D'altro canto, stare in quella posizione dava loro la sensazione di sopportare meglio il gelo, che nella cella era l'unico padrone.
Aspettavano con terrore l'apertura della porta perché, quasi tutti i giorni, ad intervalli regolari, qualcuno degli sventurati era prelevato e sacrificato senza possibilità d'appello. È anche vero che talvolta scampavano il pericolo perché mediamente erano prelevati a gruppi, vale a dire secondo la causa per cui erano stati rinchiusi, cosicché capitava che gli aguzzini dopo aver fatto una decimazione risbattessero in cella ciò che si sarebbero detti gli 'avanzi'.
Questi ultimi, più morti che vivi, per via della paura provata poc'anzi e per le atrocità che avevano visto commettere sui compagni di sventura, non avevano da rallegrarsi più di tanto dello scampato pericolo.
È ben vero che i turni di prelievo non tenevano conto del grado d'anzianità, o meglio di permanenza nella cella. Talora poteva capitare che fossero prelevati per la decimazione gruppi di prigionieri appena giunti. Il continuo ripetersi di fuoriuscite dalla cella per partecipare, in prima persona, a quei tragici riti creava negli scampati disastri psicologici. A volte la mano degli aguzzini di fronte a questi avanzi si fermava, come presa da compassione, e al loro posto erano avviati al massacro compagni più baldanzosi. Gli 'avanzi' sempre più stremati, psicologicamente, dalle tragiche decimazioni, ed altresì stroncati dagli sbalzi di temperatura cui erano sottoposti fra l'uscire e il rientrare in cella, certi giorni erano trovati dagli aguzzini cadaveri in putrefazione.
Già aprendo la cella si aveva sentore che qualche cosa non andava, in quel paesaggio composito di miseria nell'abbondanza. Un olezzo non propriamente di violetta si andava diffondendo verso l'esterno della stessa.
Si poteva notare il terrore dipinto sui volti di chi si trovava a ridosso gli avanzi in putrefazione, non potendosi staccare dalla scomoda posizione. Avevano dovuto subirne l'agonia e morte col risultato di averne sconvolta la mente. A volte preferivano essere decimati all'istante, onde cancellare per sempre dalle loro menti quello scempio deplorevole.
Spesso erano accontentati. Gli aguzzini, forse mossi a pietà, sacrificavano la loro carne anzitempo, onde evitare lo scoppio di qualche epidemia che avesse compromesso la vita degli altri prigionieri.
La cella era un dispositivo di 'vite sospese', ma alla morte, secondo il 'grande ordine', dovevano arrivarci vive.

Frammento dedicato ai 'cibi perfettamente conservati e da consumarsi preferibilmente entro il...'

(1989)



Pagina pubblicata il 23 settembre 2004, letta 6550 volte dal 23 gennaio 2006